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Il doppio stato e la doppia fedeltà







A distanza di anni, Silvano odiava certe cose. Quando la lucidità glielo permetteva ripensava in modo quasi violento indietro alla sua vita passata. La rabbia, la violenza che in lui faceva fremere il suo essere, gli ridava forza e lucidità.
Silvano aveva compreso bene la infelicità della sua esistenza. Un’infelicità costante che per tutta la vita lo aveva perseguitato, senza dargli pace.
“Era meglio che partorisse un gatto nero mia madre, invece di me”, era la sua frase ogni volta che pensava a quanto infelice fosse stata la sua vita.
E comunque quei pensieri gli ridavano forza, gli riattivavano la visione che diversamente si sarebbe spenta.
Per reagire alla demolizione continua della malattia, per mettere in atto un tentativo di arrestare quella rottamazione costante dei pezzi che componevano il suo io e il suo corpo (quel che ancora rimaneva di un qualcosa che potesse ancora chiamarsi “corpo”) ripensò alla sua vita negli anni Cinquanta, agli anni dedl boom economico, a come la gente vedeva crescere i loro soldi, il benessere, e a come la speranza non conoscesse limiti in quegli anni.
In quegli anni erano nati Luigi e poi Fabrizio. Cinque anni di differenza fra l’uno e l’altro, ed erano figli di quell’ ideale ora tramontato. Figli della speranza di una vita felice. Di una vita dettata da un reddito improvviso, che superava le aspettative.
Mettere al mondo un figlio allora pensava che fosse un atto di responsabilità per il figlio e per il mondo. Ma ora no. Ora pensava che è solo egoismo. Che è un processo un processo naturale di cui si potrebbe fare anche a meno. Che ti danno alla fine i figli, in giorni come questi? Quando sei solo tu e il tuo male a tenerti in vita. E’ solo una delle tante narrazioni del mondo quella dei figli. Lui e Sabatina avevano educato i figli secondo la loro natura. Il credo nella famiglia, il rispetto dell’uno e dell’altro. Il dare sempre, anche se non ricevi. Il volersi bene, in quanto fratelli.
Ma in realtà erano divenuti ora Luigi e Fabrizio? Due estranei. E Silvano ne soffriva. Vedere due fratelli che erano così diversi e lontani l’uno dall’altro era un dolore che non sapeva esprimere e perciò lo viveva in silenzio. Non aveva un’alternativa. Doveva e poteva viverlo solo in silenzio.
Ma in fondo anche lui con sua sorella Diana e con suo fratello Piero, come erano diventati? Sua sorella non si parlava più con suo fratello a causa della moglie di lui e a causa di Ida che aveva sempre fatto differenze fra Silavno e Piero e fra Piero e Diana.
Le narrative servono solo a descrivere un ruolo, e se i ruoli cessano, cessano le narrative. Si assume un altro ruolo e si aderisce ad altre narrative. Un fratello che si sposa, un fratello che cambia città, un fratello che fa figli vive secondo narrative diverse da quelle di quando si dormiva nella stessa camera e si cenava allo stesso tavolo.
Silvano soffriva, avrebbe voluto che i suoi figli fossero sempre fratelli, fossero i Luigi e i Fabrizio di quando erano piccolini, ora quasi non si capivano più.
Il vincolo di sangue? Una narrativa bugiarda, che non esiste più, in un mondo dove gli eroi non esistono più. Dove i valori, gli ideali si sono estinti.

Un grande vantaggio della vecchiaia è di diventare scettici; che cominci a pensare (quando la mente ancora funziona) perché hai tanto tempo per osservare le cose di lontano. E questo è un grande vantaggio, che non hai quando sei giovane. Da giovane corri e pensi solo a correre. Hai una sete dentro che ti fa solo correre.
Ma perché quei pensieri. Perché quella rabbia, e amarezza, contro il passato?
Era stato a causa di Sabatina, ormai l’ultimo interlocutore spontaneo che gli era rimasto.
Sabatina passava interi pomeriggi alla TV, dormendo. Ogni tanto si svegliava, diceva qualcosa senza senso e si riaddormentava.

- Ma perché guardi questo film? – le chiese Silvano, che si era con difficoltà alzato dalla poltrona, barcollando avve raggiunto Sabatina e l’aveva scossa.

Sabatina sussultò. Emise un suono strano e nel suo toscano crudo, escalmò:

- Che c’è? Che vuoi?
- Posso cambiare?
- Non ti piace?
- No.
- Ma come? Non ti piace Alberto Sordi?
- No, lo odio.
- Io lo voglio vedere.

Silvano, si stizzì. Borbottò qualcosa incomprensibile e si sedé. Non riusciva a tener testa a Sabatina ora, si sentiva debole. Non come quando era giovane. Allora era lei, Sabatina, che si piegava a lui.
Negli anni Cinquanta aveva visto molti film con Sordi. Per lui Sordi era colpevole di aver stereotipizzato gli italiani. Lo riteneva reo di aver impregnato la cultura del dopoguerra di un’ immagine dell’ italiano vigliacco, bugiardo, democristiano, imbroglione, debole, paraculo, lavativo, bonaccione, servo del volemose bbene semo itagliani…che era nata dalla disfatta del ’43. Quel senso di cedimento generale e di necessità di salvare la propria pelle costi quel costi e di individualismo estremo derivati dalla disfatta dello Stato l’aveva trasferito sugli schermi e ne aveva fatta un’icona della italianità.
Aveva sdoganto e legittimato l’immagine dell’italiano individualista e debole nato dall’egoismo dell’ 8 settembre, che soffriva del desiderio inappagato di ritornare a casa, alla propria Itaca, e per questo pronto a sacrificare tutto il resto purché a vantaggio del proprio tornaconto.
Quel film che Sabatina pretendeva di guardare ma neppure ascoltava, immersa nel suo sonno di morte anticipata che ti prepara a distaccarti lentamente dal mondo, l’ aveva fatto scivolare con i pensieri a quegli anni dell’ Italia che ruggiva.
Ora di che ruggiva l’ Italia? Ora gli parevano tutti figli di Alberto Sordi: vigliacchi, bugiardi, imbroglioni, deboli, paraculi, lavativi, voltagabbana, comici diventati politici e politici diventati comici…Chi aveva provato a uscire da quello schema era sempre stato fatto fuori: Mattei, Moro, Craxi, Falcone, Borsellino...
Non erano molti in fondo gli italiani con le palle dal Dopoguerra a oggi. Li contavi sulle dita di una sola mano.
Ricordava che pure in quegli anni, negli anni del miracolo economico, serpeggiava il malessere. Il malessere di una prosperità troppo improvvisa, che aveva troncato il dolore del nostos, che aveva partorito immigrazioni folli dal sud al nord, cambiamenti alle strutture portanti della vita di milioni di persone, che aveva provocato una incontenibile corsa ad acquistare firmando cambiali.
Ma tutto questo era sembrato secondario davanti alla ricchezza inattesa di un paese secolarmente povero e depredato in modo genetico dal nord, dopo l’Unificazione d’Italia, e dagli stati esteri da cui l’Italia aveva da sempre dipeso e continuava a dipendere. Quella italiana era una democrazia secondo la formula del doppio Stato con una doppia fedeltà: fedeltà alla Repubblica e fedeltà alle forze che estere che hanno da sempre controllato la Repubblica.
E perciò quel malessere non era mai scomparso. Si era trasformato, modificato, mascherato, evoluto ma mai era rimasto assente.
E le loro malattie avevano causa in quello stesso male che correva ininterrotto nelle contraddizioni del doppio Stato, dal boom economico ai presenti giorni. Erano come il risultato di una risonanza evolutiva che li aveva accompagnati fino a modificare le loro cellule, e il loro comportamento genetico.

Ma Silvano non mollava. Nonostante l’età e le malattie. Non era Sabatina, lui. Aveva difficoltà a capire ma voleva capire. Voleva almeno morire con la certezza di aver capito. E forse aveva capito. Per questo pensava, ascoltava dentro di sé, per quanto le medicine e i mali congiurassero contro la sua volontà.

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