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Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall'interno - (dodicesima puntata)



Mestruazioni e domande filosofiche sulla felicità e altre cose



Forse Austėja non poteva procurare la felicità a molti ma a me sì poteva. Mi induceva alla felicità rimanendo lei depressa.
Condenserei tutto in una parola: passione.
Austėja era febbre e passione. Dalla febbre la passione? In onestà non vedo perché dovrei scollegare le due cose. Non credo che l’una potesse sussistere senza l’altra.
Entrambe mi raggiungevano e mi procuravano felicità.

Faceva dolci nell’orkaitė (forno della cucina) e tagliava fette di torte per me. Mi preparava il caffè la mattina. Mi accoglieva dentro di sé la notte e la mattina. Mi tormentava con le sue domande e la sua gelosia ma alla fine imparavo le sue ragioni e gliene rendevo grazie. E imparavo, ancora.
Non mi soffocavano le sue attenzioni eccessive, le sue domande insistenti e continuative.
Stavo chiuso in un’arca al buio e mi godevo il mondo meglio di prima. Le paure iniziali si dileguavano, lente ma si dileguavano.
L’amore aveva preso una direzione. Andava nel senso che gli avevamo impresso. Speravo solo che la routine non l’avrebbe scalfito.

Come si dice oggi, il nostro amore conosceva la sua propria narrativa.

Era una narrativa che volevo tenere lontano da idee come sposarsi, preoccuparsi per i soldi, avere bambini, tradimenti e bugie, noia e giorni passati in silenzio senza parlare o comunicare per monosillabi.
Questo per me non era amore, era la morte dell’amore.
Per fortuna le sue esagerazioni tenevano in vita l’amore che volevo e non quello che ripudiavo.

Nella gelosia era eccessiva, come in tutto ciò che era emozione e sentimento del resto. Non le bastava che io fossi fedele pretendeva che anche il lato morale e ogni pensiero fossero a lei votati.
Se cucinava, cucinava in eccesso. Per due persone coceva quindici patate. Se faceva il plovas lo faceva per almeno una settimana.
Se piangeva non si limitava ad un’ora ma il pianto perdurava oltre un fine settimana (il suo tempo di maggior depressione).
Amava la musica e in ogni stanza aveva una radio accesa, per cui c’erano in contemporanea quattro radio in attività e due televisioni perennemente accese dalla mattina alla sera. Nel volume era rigorosa però, i decibel erano ridotti al minimo della percezione auricolare.

Il suo luogo preferito della casa era la cucina. In cucina leggeva, preparava la cena, in cucina telefonava scriveva al computer, lavorava piangeva, rideva e pensava.
In cucina facevamo all’amore, spesso.
La cucina era piena del suo sé a differenza di ogni altra parte della casa.
Lì (nella cucina) aveva eretto il suo santuario interiore. Fortificato il suo sé, imparato a stimarsi e avere fiducia in se stessa o a torturare se stessa su domande a cui non sapeva trovare risposta.
E non amava cedere quello spazio nemmeno a me.
Mi ospitava, sì, in quello spazio ma rimaneva esclusivamente suo.

Da ogni spazio mi escludeva nei giorni neri delle mestruazioni. Chi era in quei giorni il demiurgo nascosto che rompeva il mondo e lo spazio circostante a lei? Decideva per lei e parlava per lei?
In quei giorni pareva che ogni pensiero della mente fosse già deciso indipendentemente da lei. I suoi pensieri non guardavano più me ma miravano diretti all’interiorità del suo proprio io e non vedeva niente.
Erano i giorni in cui assaporava di nuovo un’infanzia in cui mai aveva deciso alcunché.

Era nata a Klaipeda.

- La mia infanzia è stata poverissima, vivevo in una casa senza riscaldamento. La temperatura che era fuori era dentro. C’era poco da mangiare. Il piatto migliore era lo šaltibarščiai. Per questo forse lo amo ancora. E’il sapore della mia infanzia

Sembrava un sapore-amore di quella infanzia. I suoi occhi ne conservavano traccia. Mi pareva come un’infanzia che mai passasse ogni volta che mangiava lo šaltibarščiai.
Mi chiedevo che davvero vedessi in lei in quei giorni che le mestruazioni alteravano il suo stato percettivo.
Non vedevo perfezione, ne ero innamorato folle ma non vedevo perfezione in lei. Vedevo la vita come un preludio a una ricerca fatta di fatica che cerca la direzione. Ma era vita, voglia di vivere che vedevo e non negazione di essa, nonostante affermasse di essere disperata.

Come dice Ričardas Gavelis in Vilniaus Pokeris “In giorni come quelli le cose più leggere pesano più che le pesanti e […] mostrano direzioni per le quali non esiste un nome”.

Credo che il suo fascino risiedesse tutto nei suoi occhi azzurri e nelle sue labbra carnose ben contornate. Nella pelle che mi ricordava il burro e nel calore del corpo che produceva la sua febbre intermittente.
E quei tratti così evidenti in lei sembravano salvare la mia vita dal nulla di una visione animale del mondo.

Certo le sue non-direzioni di quei giorni di mestruo incidevano sulla fiducia di una vita insieme con lei e tuttavia sapevo che la sua resistenza ad essere la persona ordinaria che era sempre prima di quei dannati giorni sarebbe presto terminata e le cose leggere avrebbero riacquistato il loro giusto peso e quelle pesanti si sarebbero alleggerite.
Eppure in quell’apparente solipsismo una costante manteneva aperto il filo fra la Austėja pre-mestruazioni e inter-mestruazioni: la generosità. Mai veniva meno la sua generosità. Anche nel momento più nero di quei giorni sapeva sacrificarsi per chi amava, nonostante la frase a bella vista nella sua camera da letto neturi aukotisavo gyvenimo kitiems.

Penso e credo che la generosità fosse la sua essenza. E forse quella generosità era legata al sapore dello šaltibarščiai.
Solo chi ha veramente vissuto in miseria può in onestà conoscere la generosità. La sua generosità era un ricordo, che condizionava il modo di guardare alla vita, talmente impresso nella sua coscienza da determinare la qualità della vita.

Saprò mai se il cielo blu, che io vedo blu, sia in essenza blu o sia in realtà un modo che appartiene programmaticamente alla mia coscienza per cui il cielo è blu e non rosso?
Qualcosa di simile doveva essere per lei. Era possibile programmaticamente che la sua coscienza vedesse il mondo meno generosamente di come lo vedeva?
Perché io coglievo quell’aspetto in modo costante e le altre modalità passeggere rispetto al suo essere Austėja Stašytė e quella qualità come permanente?
Erano domande fondamentali che io mi ponevo in quei giorni di mestruo.




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