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Silvia - un incontro per caso sulla scena della vita






L'avevo sognato quell'incontro. Nello stesso modo che avvenne.
Avevo sognato che camminavo un giorno e una ragazza che somigliava a lei, a Silvia, mia figlia, passava camminando. Quel giorno.

Silvia, Silvia! - io la chiamai, nella luce di quel giorno. Ma lei non mi sentiva. E allora la chiamai più forte: Silvia!!
Finalmente, lei, si girò. Si girò e guardò infine.

E poi mi ero svegliato.

Ma fu così che avvenne, nello stesso esatto modo. Un anno dopo, quasi.
In piena estate, in un caldo che mi schiacciava a terra, cercavo un bar, dove potessi bere un caffè. Se bevevo un caffè mi sarei ripreso. Altrimenti non so, poteva essere che sarei mancato. Svenuto. Caduto per terra.
Ma sono difficile nello scegliere i bar. Non posso entrare in ogni bar. E mentre giravo per Empoli alla ricerca del bar che mi piacesse, la vidi.

Che strano ritornare nella stessa città dove sei praticamente cresciuto e vissuto, dopo tanti anni. Dopo gli anni soprattutto che hanno sconvolto il mondo in modo meschino, che hanno capovolto ciò che è bene in ciò che è male e ciò che è male in bene.
E' come finire in un mondo parallelo in cui sbuchi improvviso e ti ritrovi in un universo simile in tutto, ma sai che non è lo stesso, perché senti che quel mondo che vedi, per come si dà, non è lo stesso modo in cui si dava prima. E benché paia una sensazione è però una certezza.
Sei tu, ma tu che ti esprimi in un' altra lingua, diversa da quella di prima.

Ed eccola Silvia, esce da un negozio con una borsa di carta in mano. Forse ha comprato una maglietta per sé.
La vedo, è lei, reale, e tuttavia ho con me questo sentimento ancora, di venire da un mondo parallelo a questo in tutto simile, ma non lo stesso di quello in cui vivevo prima.
Eccomi dire come nel sogno; Silvia, Silvia! E come nel sogno lei non mi sente e va avanti. E alllora urlo ancora più forte: Silvia!!
Si volta e guarda (come nel sogno).
Silvia! - allora ripeto.
Mi vede finalmente. Lei non sorride e nemmeno sembra sorpresa. Semmai imbarazzata. 
Sono cinque anni che non la vedo.

Mi avvicino, la abbraccio, sento la sua pelle i suoi capelli dopo tanti anni. Sento il caldo del suo corpo. Vedo le sue braccia magre, e capisco che ha sofferto. E capisco come mi è mancata e come le voglio bene.
Respiro, respiro il mio amore per mia figlia. Finalmente.
Silvia - mia bambina... E la stringo forte al petto.
Lei ha le labbra serrate. Lo vedo che ha patito. E io so che sono una gran parte della sua sofferenza.
Ho scelto di lasciare l'Ialia e lei l'ho sacrificata. Ho sacrificato soprattutto la sua fiducia in me.
Ma che potevo fare? Non avevo scelta. O scegliere la vita o scegliere un sacrificio inutile. In questo paese sarei finito alla deriva. Ora lo so con certezza. Ora so con certezza che a causa della pandemia sarei caduto nelle sue trame e avrei perso il lavoro, e ora sarei stato senza lavoro senza casa senza soldi...come avrei vissuto?
E invece ho superato gli orditi di questa ennesima prova e fuori dal mondo in cui ero vissuto mi sono rifatto una vita, perché mi sono dovuto inventare una vita, che non avevo, che avevo lasciato nel mondo da cui venivo.
E me ne sono inventata una completamente nuova.

- Come stai, Silvia? Mia piccolina... - le dissi accarezzandole i capelli mentre la stringevo a me.
- Beh si cerca di andare avanti... - mi rispose un po' contratta, quasi timorosa, ma non fredda. Conoscevo Silvia. La conoscevo fin dai primi giorni della sua venuta. Benedetto il giorno, e l'ora che è nata, e Dio sa che mi bastava ora guardarla un attimo per sentirla, per capirla fino in fondo. L'avevo tenuta in braccio, l'avevo coccolata fino dai primi minuti che venne alla luce e fino a sedici anni era stato il mio alter ego inseparabile, poi piano piano i nostri disegni ci avevano allontanato dallo spazio comune della nostra comune commedia.

- I bambini?
- Crescono...

Quegli anni erano stati come un gorgo, che si era aperto tra noi inatteso senz’alcun sospetto, e ci aveva afferrati e travolti in un attimo,e per cinque lunghi anni ci aveva tenuti dentro il suo abisso. E ora lì fra le mie braccia quel gorgo si richiudeva, con fatica, ma si chiudeva.
Le parole però salivano con difficoltà dalla voragine in cui eravamo precipitati. Dovevano percorrere una strada lunga per riandare lungo il budello infinito che le separava dalla superficie.

Non le chiesi se anche lei voleva un caffè o qualcos'altro. Vedevo come pativano le parole fra noi.
C'erano tra noi troppi spettri, troppe ombre ancora che impedivano ai nomi ai suoni dei lemmi di salire liberi.

La libertà. Che bella parola. Ma chi davvero conosce la libertà?
Nemmeno noi due in quel momento eravamo liberi di essere ciò che avremmo voluto essere.
Quasi mai si è quello che si vorrebbe essere, ma sempre si è qualcosa di diverso da quell'istinto che portiamo dentro e soffochiamo per essere qualcos'altro, infine.
E ora mi ricordo quando eravamo liberi, liberi insieme. Erano quei giorni di estate bella come oggi. Ingenui entrambi della vita, che credevamo  un giorno sarebbe il risultato delle promesse che pareva ci avesse fatto.

Vivevamo di ingenuità e di poesia. La poesia non è solo quella scritta su un foglio di carta. E' anche la vita, certi momenti della vita si fanno poesia. Come quelle ore cha passavamo in bicicletta sotto il sole, felici di essere vivi in quel tripudio di luce che benediva di ebbra bellezza le nostre pedalate e i dialoghi infiniti fra me e lei.

Perché questa barriera fra noi Silvia, ora? Perché non siamo come allora, una sola ed unica cosa?
Perché questa parete che ha interrotto la nostra transustanziazione? Il nostro farsi corpo nel corpo dell'altro.
Ma non vi era risposta. Non poteva esservi.
Troppo dolore gli anni avevano gettato. Troppi dubbi e troppa diffidenza ora caricavano i nostri sguardi, le nostre parole.
E quel peso aveva un nome: coscienza.
In quell'incontro l'anima ci univa ma la coscienza ci separava.
Gli idoli e le ombre di questo secolo vivono e nutrono la coscienza. L'anima invece sta in alto, guarda oltre l'orizzone della propria coscienza. Sta nella luce di una città che non è questa, o quella, o tutte le altre in cui agiamo e realizziamo i drammi del nostro esistere, e di cui viviamo come se i drammi fossero veri e reali, e lo sono infatti perché siamo persi in essi e siamo le loro voci, siamo i personaggi che i drammi ci chiedono di essere. Recitiamo a soggetto i nostri drammi.

Che recitavamo, Silvia, quel giorno che per caso vorrei dire, se il caso esistesse, ci siamo incontrati nella città dove i comuni atti della nostra vita ci avevano concesso lo stesso spazio, insieme, sullo stesso palcoscenisco, finché io, attore principale, non avevo abbandonato la scena, impaurito dal peso del ruolo e avevo lasciato il teatro della nostra vita comune - e ti avevo abbandonata lasciandoti sola sul palcoscenisco, muta, sotto le luci impietose dei riflettori che mostravano ogni piega e ogni ruga della tua coscienza impaurita?





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