In questo testo, che fa parte di "Essere mio padre" che si trova in making già in https://www.academia.edu/, Silvia, il personaggio principale, rimane terrorizzata dalla paura di aver perso la memoria del padre morto, all'alba del giorno che deve lasciare Vilnius, dove si era recata per visitare la tomba del padre morto, e prendere un volo per l'Italia.
Era la notte prima del volo. E Silvia si svegliò. Ed era la prima volta che a Vilnius si svegliava la notte. Tutte le notti precedenti aveva dormito senza mai interrompere il sonno.
Ma non questa notte.
Si svegliò con l’assillo che non ricordava suo padre.
E i pensieri erano cupi e l’incubo di partire ingrossava il male.
Dopo la sua sua morte aveva inseguito solo un’ ombra, uno spirito, che quasi non aveva faccia.
Dio mio, disse, non ricordo il tuo volto babbo...
Esisti nei miei pensieri, esisti nel mio corpo ma solo esisti, esisti senza un’immagine.
Perdere la memoria, capì, è un grande nemico del cuore. Come può amare chi non ricorda il volto, il suono della voce, i movimenti del corpo?
Dimenticare cancella tutto dell’altro e lo condanna al silenzio per sempre.
Ed era grata che la morte del padre chiedeva a lei di cercare un’immagine che più non aveva. L’aveva strappata giorno dopo giorno dall’oblìo dell’anima in cui aveva tagliato l’immagine del padre e aveva lasciato un buco profondo, vuoto. Assurdamente vuoto.
Ma è mio padre, disse Silvia a se stessa nel chiarore dell'alba che entrava già dalla finestra prennunciando ormai la partenza che la inquietava, come posso averlo dimenticato per così tanto tempo?
Posso sentire cose su di lui, anche se non ricordo chiaramente. Continuarono i suoi pensieri. E so che desidera con tutto il cuore che non lo dimentichi ora in morte dopo che l'ho già fatto in vita.
Io sono della stessa carne e sangue di lui. Come posso tradire ciò che io sono in virtù di lui?
E quel partire aumentava il senso del tradire. Ma che poteva fare? Come avrebbe potuto rimanere lì? A custodire le forze apparentemente inattive che dormivano e attendevano il risveglio?
Erano pensieri tetri che il rompere della luce nella stanza cominciava per fortuna a stemperare.
Capì che non era cosa leggera lasciare Vilnius, un posto che le pareva di conoscere da anni.
In quei giorni aveva recuperato i contorni di un viso dolce e bello, che le parve d’un tratto di ricordare bene. Ma il colore dei suoi occhi, la piega della sua guancia, ancora indugiavano nella nebbia dell’anima offuscati e distanti. Ed era crudele che ancora non ricordasse quella parte viva che rende ogni uomo diverso da ogni altro. E provava vergogna e rabbia.
Di un tratto la luce che pentrava dalla finestra scomparve e l’aria divenne grigia. Nel giro di pochi minuti cominciò a piovere a dirotto. Durò più o meno trenta minuti. Poi il cielo si aprì e di nuovo apparve il sole.
Silvia sentì sollievo, partire sotto la pioggia sarebbe stato ancora più orribile. E non sarebbe stato un buon segno, pensò.
Il sole le avrebbe dato almeno un po’ di coraggio per prendere quell’aereo che non voleva prendere.
E si ricordò di quella volta che il padre l’aveva chiamata dall’aeroporto di Vilnius, angosciato dalla ennesima partenza che lo faceva soffrire, e lei gli aveva rifiutato una parola di conforto.
E arrossì in volto di rabbia e vergogna di nuovo.
E sentì senza preavviso che ora il ritorno era possibile, che l’amore di Alessandro l’avrebbe confortata, perché Alessandro a differenza di quello che aveva vissuto il padre quel giorno, mortificato della solitudine in cui si era perso all’aeroporto, era al suo fianco e l’accompagnava e non la lasciava. Alessandro era alto era forte e poteva in ogni momento appoggiare la sua testa al suo petto e trovare rifugio e protezione in lui.
Ma allo stesso tempo capì quanto forte dovesse essere stato l’amore del padre per Živilė se a cinquantotto anni aveva lasciato tutto e senza nemmeno un lavoro e uno stipendio si era trasferito a Vilnius, in un paese completamente straniero e freddo. E capì anche quanto forte dovessere essere stato l’amore di Živilė per il padre se lo aveva accettato, lei che aveva la stessa età di Silvia, senza lavoro e senza soldi.
Forse per la prima volta in vita sua guardò al cielo e si fece il segno della croce. Disse: Ave Maria...voleva pregare come il piccolo Marco. Ma non sapeva, non conosceva le parole dell’Ave Maria.
Le imparerò, si disse.
Fuori ora vi era un sole bellissimo e splendente e l’aria era calda ma non afosa. Ed erano solo le cinque del mattino.
E le sembrò che quel sole le dicesse: ora Silvia puoi vivere in pace. Deponi le memorie, lasciale qua. Qualcuno amerà conservarle e tenerle care. Io le illuminerò ogni giorno e le terrò vive, fino al giorno che ritornerai. E quel giorno io te le restituirò e saranno per sempre con te.
E le piacquero le parole del sole. Era un invito. Un invito a tornare presto in quella città, dove il padre era seppellito e dove suo fratello viveva.
Era la notte prima del volo. E Silvia si svegliò. Ed era la prima volta che a Vilnius si svegliava la notte. Tutte le notti precedenti aveva dormito senza mai interrompere il sonno.
Ma non questa notte.
Si svegliò con l’assillo che non ricordava suo padre.
E i pensieri erano cupi e l’incubo di partire ingrossava il male.
Dopo la sua sua morte aveva inseguito solo un’ ombra, uno spirito, che quasi non aveva faccia.
Dio mio, disse, non ricordo il tuo volto babbo...
Esisti nei miei pensieri, esisti nel mio corpo ma solo esisti, esisti senza un’immagine.
Perdere la memoria, capì, è un grande nemico del cuore. Come può amare chi non ricorda il volto, il suono della voce, i movimenti del corpo?
Dimenticare cancella tutto dell’altro e lo condanna al silenzio per sempre.
Ed era grata che la morte del padre chiedeva a lei di cercare un’immagine che più non aveva. L’aveva strappata giorno dopo giorno dall’oblìo dell’anima in cui aveva tagliato l’immagine del padre e aveva lasciato un buco profondo, vuoto. Assurdamente vuoto.
Ma è mio padre, disse Silvia a se stessa nel chiarore dell'alba che entrava già dalla finestra prennunciando ormai la partenza che la inquietava, come posso averlo dimenticato per così tanto tempo?
Posso sentire cose su di lui, anche se non ricordo chiaramente. Continuarono i suoi pensieri. E so che desidera con tutto il cuore che non lo dimentichi ora in morte dopo che l'ho già fatto in vita.
Io sono della stessa carne e sangue di lui. Come posso tradire ciò che io sono in virtù di lui?
E quel partire aumentava il senso del tradire. Ma che poteva fare? Come avrebbe potuto rimanere lì? A custodire le forze apparentemente inattive che dormivano e attendevano il risveglio?
Erano pensieri tetri che il rompere della luce nella stanza cominciava per fortuna a stemperare.
Capì che non era cosa leggera lasciare Vilnius, un posto che le pareva di conoscere da anni.
In quei giorni aveva recuperato i contorni di un viso dolce e bello, che le parve d’un tratto di ricordare bene. Ma il colore dei suoi occhi, la piega della sua guancia, ancora indugiavano nella nebbia dell’anima offuscati e distanti. Ed era crudele che ancora non ricordasse quella parte viva che rende ogni uomo diverso da ogni altro. E provava vergogna e rabbia.
Di un tratto la luce che pentrava dalla finestra scomparve e l’aria divenne grigia. Nel giro di pochi minuti cominciò a piovere a dirotto. Durò più o meno trenta minuti. Poi il cielo si aprì e di nuovo apparve il sole.
Silvia sentì sollievo, partire sotto la pioggia sarebbe stato ancora più orribile. E non sarebbe stato un buon segno, pensò.
Il sole le avrebbe dato almeno un po’ di coraggio per prendere quell’aereo che non voleva prendere.
E si ricordò di quella volta che il padre l’aveva chiamata dall’aeroporto di Vilnius, angosciato dalla ennesima partenza che lo faceva soffrire, e lei gli aveva rifiutato una parola di conforto.
E arrossì in volto di rabbia e vergogna di nuovo.
E sentì senza preavviso che ora il ritorno era possibile, che l’amore di Alessandro l’avrebbe confortata, perché Alessandro a differenza di quello che aveva vissuto il padre quel giorno, mortificato della solitudine in cui si era perso all’aeroporto, era al suo fianco e l’accompagnava e non la lasciava. Alessandro era alto era forte e poteva in ogni momento appoggiare la sua testa al suo petto e trovare rifugio e protezione in lui.
Ma allo stesso tempo capì quanto forte dovesse essere stato l’amore del padre per Živilė se a cinquantotto anni aveva lasciato tutto e senza nemmeno un lavoro e uno stipendio si era trasferito a Vilnius, in un paese completamente straniero e freddo. E capì anche quanto forte dovessere essere stato l’amore di Živilė per il padre se lo aveva accettato, lei che aveva la stessa età di Silvia, senza lavoro e senza soldi.
Forse per la prima volta in vita sua guardò al cielo e si fece il segno della croce. Disse: Ave Maria...voleva pregare come il piccolo Marco. Ma non sapeva, non conosceva le parole dell’Ave Maria.
Le imparerò, si disse.
Fuori ora vi era un sole bellissimo e splendente e l’aria era calda ma non afosa. Ed erano solo le cinque del mattino.
E le sembrò che quel sole le dicesse: ora Silvia puoi vivere in pace. Deponi le memorie, lasciale qua. Qualcuno amerà conservarle e tenerle care. Io le illuminerò ogni giorno e le terrò vive, fino al giorno che ritornerai. E quel giorno io te le restituirò e saranno per sempre con te.
E le piacquero le parole del sole. Era un invito. Un invito a tornare presto in quella città, dove il padre era seppellito e dove suo fratello viveva.
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