El dolor es el altoparlante para hacernos más humanos, más tolerantes,
más conscientes del milagro y del amor de la existencia.
(Raúl Zurita )
Ebbe una visione Silvia. Vide mani di carne, vecchie e grinzose. Vide suo nonno e suo padre. Carne putrefatta. Vide sé in punto di morte. Pronta a morire. E dolore l'avvolse. Provò voglia di piangere, ed ebbe paura. Sentì che era entrata in un mistero troppo grande, troppo grande per la sua comprensione, per le sue capacità, per la sua natura di donna. Era oltre Silvia, oltre ciò che era lei, e che un altro uomo o un' altra donna che non fosse un santo o una santa era impossibile che potesse afferrare o sfiorare. E forse nemmeno tutti i santi hanno mai afferrato quell'attimo che va oltre l'immediato in una estensione più vasta e larga che sta oltre il passaggio obbligato. Stretto come la cruna di un ago. Per cui è difficile passare. E' difficile persino immaginare, che sia possibile un giorno passare. E tuttavia sarà varcata quella soglia, quella cruna stretta, che nel momento che si aprirà sarà larga a sufficienza perché passi chi deve passare.
E suo padre e prima di lui i suoi nonni avevano varcato e di lì erano scomparsi agli occhi e non al cuore,
E il cuore le diceva ora che quella cruna stretta si manteneva aperta perché lei sapesse una verità di cui mai avrebbe sospettato e mai prima aveva pensato.
Era stato un punto di scarto la morte del padre. Il binario della sua vita lineare aveva improvvisamente trovato un punto di scambio e la sua vita si era spostata verso un nuovo mondo aperto da quello scambio per una direzione che veniva dal futuro, per cancellare il presente e gettarlo via come si getta dietro di sé ogni atto passato.
Si svegliò. Era sudata. Aveva il respiro greve. Sentiva la bocca impastata. Il corpo era un fremito.
Respirò. Andò in cucina e si fece il solito caffè.
Si sedé e cominciò a berlo. Le ridiede vita. Il calore del caffè giunse al cuore che era divenuto freddo.
Mai aveva bevuto tanto caffè come ora.
Anche babbo beveva tanti caffè. Pensò.
Ormai le notti per Silvia divenivano quasi un tormento.
Era sempre più raro che godesse di una notte di sonno senza interruzioni.
E quella visione l’aveva risvegliata, e portata di nuovo allo stato di veglia a cui stava piano piano abituandosi.
Era la notte che tutti i grumi che si teneva dentro duri e gonfi si scioglievano e si manifestavano.
Così le parve.
Uno di quei grumi si sciolse, ma non era un grumo da cui fuoriuscì qualcosa che riguardasse lei.
Stranamente venne fuori una domanda.
Ma chi si prenderà ora cura di lei?
Lei, era Živilė.
Fu sorpresa. Che lei fosse in pena per Živilė, non era strano?
La immaginò sola in un appartamento che Silvia non conosceva. Lo vedeva buio e imperscrutabile. Poteva solo distinguere i suoi capelli biondi in quella penombra.
Lei non ha mai avuto un padre. Le sovvenne una voce. Un altro grumo che si apriva. Lei avrebbe tanto voluto comunicare con il padre, continuò la voce, ma non ha mai potuto. Non l’ha mai avuto. Si è ucciso che lei era piccola. Tutta la sua vita è vissuta senza padre. Avrebbe tanto voluto averlo ma non l’ha mai avuto. Tu lo hai avuto ma non l’hai voluto.
Ascoltò la voce e tacque. Ancora non l’aveva riconosciuta e le pareva impersonale.
Quella voce era un forte rimprovero. Ma non la face sentire male. Sapeva che quella voce aveva ragione. E sapeva accettare quell’imperativo morale che le diceva la colpa.
Si sentiva ora avvolta da quella stessa oscurità che avvolgeva la nuova visione di Živilė, chiusa nel suo appartamento, a Vilnius. Era una visione ma come tutte le visioni poteva immaginare quello che realmente fosse. In fondo l‘immaginabile è lì perché lo si immagini.
E ancora più cupa si fece allorché penso a Živilė sola con due bambine e la guerra poco lontano da dove viveva.
Stette male. Stette male per una persona per la quale mai fino ad allora aveva provato simpatia.
Le storie, si dice, avvicinano le persone. E la morte del padre era la storia che ora le avvicinava.
Questo capì.
Ed era stata la prima volta che aveva udito la voce. E dapprima non l‘aveva riconosciuta.
Le parlava dentro. E finalmente la riconobbe. Era la sua voce.
Ma la voce di una Silvia che non era più. Che aveva dimenticato. Che aveva sepolto, come strati enormi di grasso che arrivassero a coprire un corpo snello con le forme e lo annullassero sotto quel grasso fino a coprirlo senza distruggerlo però nelle sue forme originarie. Solo le occultassero in quella massa gelatinosa.
Ecco lei negli anni aveva coperto quella voce ma non l’aveva distrutta. L’aveva coperta di mille altre intenzioni ma non l’aveva distrutta. Fino ad umiliarla.
E ora quella voce le parlava in modo risentito.
Si era nutrita come una folle di tutto quello che lei non era, per essere come in realtà non era.
Pensavi che non ci fossi più. Le disse la voce.
Silvia stupì.
Mi hai voluto dimenticare.
Non me ne sono accorta. Rispose Silvia, accettando il dialogo con la sua voce. So questo però: non mi piacevo com’ero. Se questa ragione può bastare.
Per la stessa ragione, infierì la voce, hai dimenticato tuo padre. Rappresentava quello che non volevi. Ti ricordava quello che non eri. Lui era la coscienza che rifletteva in te quello che tu non volevi. E lui ti vedeva come eri in realtà.
Silvia tacque un po’ prima di rispondere.
Sai c’è una cosa che mi ricordo e che hai ragione. Quando ero piccola alle gare di ginnastica arrivavo sempre ultima. Babbo soffriva tanto. Ti ricordi?
Sì, ricordo bene. Le rispose la voce interiore.
Stava in tribuna, proseguì Silvia, guardava gli altri genitori esultare quando sentivano il nome delle loro bambine. Il mio niente. Non arrivava mai. Lui aveva le lacrime agli occhi...ma un giorno, alcuni anni dopo...al momento dei risultati lui abbandonò la tribuna. Non aveva più la forza di soffrire, forse. O forse la sua sofferenza era troppa. Insopportabile. Credo che per questo abbandonò la tribuna. Io vinsi quella volta! e lo cercavo con gli occhi fra la gente in tribuna e lui non c’era. Fu una delusione incredibile non vederlo. Volevo urlargli dal campo di gara: Babbo ho vinto! Ho vinto!!! Ma lui non era lì, non mi aveva aspettato...ecco forse quel giorno ho capito che non dovevo essere quella che in realtà ero: una perdente. E per quello avevo vinto. Vinto con la intenzione di una volontà di ferro.
Forse anche lui per gran parte della sua vita si è sentito un perdente. Ribadì la voce. Forse non poteva vedere in te anche il suo fallimento. Per questo se n’è andato.
A questo Silvia non ci aveva mai pensato.
Sai perché mi hai dimenticata? Le chiese la voce.
No.
Perché hai dimenticato, hai voluto dimenticare la sofferenza. Tuo padre invece non l’ha mai dimenticata la sofferenza, ci ha vissuto dentro tutta la vita. Ha provato ad evitarla, ma poi ha preferito affrontarla. Ecco perché ti sei allontanata da lui. Lui ti riportava a quel mondo a cui tu volevi sottrarti. Hai cercato il pretesto della volontà per dimenticarmi, perché io ero la voce di quella sofferenza che hai preferito ignorare.
E‘ vero, Soffrire mi faceva paura...ma lui non mi sembrava che soffrisse.
Ti sbagli. Sai perché soffriva?
No.
Perché cercava l‘amore, ad ogni costo.
Silvia tacque. Era vero quello che diceva la voce. Ora aveva chiaro perché il padre era corso dietro alle donne come pazzo. Non era il sesso che cercava, ma l’amore. Sì, era vero.
Si soffre per due motivi, soprattutto. Continuò la voce. Per amore o per la verità. Cercare la verità è sofferenza. La verità, come l‘amore sono selettivi. Pochi riescono a soffire per queste due ragioni. E chi non è in grado viene riformato, espulso, gettato fuori da quella ricerca. Ti sei fermata in questa ricerca Silvia. Solo ora, ora che tuo padre è morto. qualcosa si è riavviato. E io sono ritornata a parlarti. Ora era l’ora.
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