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La voce della morte






Dal mio libro in corso di scrittura "Gli Ultimi Incredibili Anni Prima di Morire"

Poi si rese conto.
Sempre certe visioni avvenivano mentre lavava le tazze del caffè.
Si rese conto mentre lavava una tazza del caffè che le ultime persone in vita che amava erano come sparse. Monadi lontane che vivevano ognuna in un mondo proprio e che l‘unica cosa che le univa era il suo amore e il suo pensiero.
Le aveva lasciate là, in quel paese, che quasi provava difficoltà a nominare. Quel paese che aveva scoperto quanto infame fosse, vivendo fuori di esso. Un paese di mascelle deboli, di viziati. Ignavi, era la parola che amava di più per definirli, era la parola che secondo lui meglio definiva quel paese e la sua gente che era l‘essenza di quel paese distorto dal benessere, arrogante e soffocato nel proprio benestare.

Troppo si era focalizzato in se stesso, per vivere, per sopravvivere, per formare quel sentiero interiore che gli aveva permesso di resistere all‘orrore in cui era caduto il mondo davanti alla falsità della propaganda che si era impadronita del mondo.
Se sei intento a sopravvivere, se il livello del tuo vivere è quello di una linea di pura sussistenza, non hai invero molto altro spazio a cui aggrapparti, che non sia quello strettamente necessario alla sopravvivenza.
E sentiva ora che il tempo era venuto per rivedere quelle persone, nella carne e negli occhi. Di sentire la loro voce, dopo tanti anni. Di cingere il loro corpo in un abbraccio che poteva essere fra gli ultimi. Di unirle in un abbraccio fisico e non più solo nel pensiero del cuore.
Non era lontananza quella che sentiva, era tradimento alla propria carne che provava. Disconoscimento della sua linea biologica. Del suo stesso sangue. Il non vederle più.
Così era, e così pensava. E sentiva una distanza indefinita e tuttavia semnpre più incolmabile.
Sarebbe morto in quella distanza? Nella dissoluzione del proprio sangue?
Lo intristivano quei pensieri.

Doveva rompere quell’accerchiamento di solitudine in cui il pensiero sovraccarico di particelle elementari e la preghiera lo avevano messo, uscire da quell’angolo silenzioso rispetto al rumore del mondo in cui si era autoisolato, doveva ritornare anche al mondo, perché ogni giorno si faceva più difficile vivere nel mondo senza prenderne parte.
Che strana condizione era la sua.
Strana e irripetibile. E tuttavia scomoda. Non era un santo per cui poteva vivere felice sulla base di un postulato di vita ultraterrena che lo ispirava in ogni suo atto, ma non era nemmeno della stessa pasta del mondo, di cui tutti gli altri esseri, la maggioranza, che lo circondavano quotidianamente negli atti del vivere, erano fatti e miscelati.
Dovunque andasse, dovunque posasse il suo culo, dovunque cercasse conforto o interesse si sentiva in esilio, non facente parte di quel mondo in cui si trovava, ma quello da cui era provenuto nemmeno esisteva più.
Vi erano solo tre tracce di sangue che lo legavano, e neanche sapeva più quanto, a quel mondo passato e trascorso che era stato azzerato dall’eco della lontananza che lo sviliva ogni giorno di più.
E quelle tre tracce di sangue avevano tre nomi, tre nomi chiari e definiti che non si deprezzavano, non si annullavano, che erano rimasti certi, sicuri, indimenticati. Chiari nella sostanza che definivano.
Luigi.
Silvia.
Claudia.
E il tempo era venuto. Il tempo che viene sempre. Urge e urla ciò che non può più essere procastinato.
Il tempo che il suo corpo si riunisse alla stessa linea di sangue che fluiva in loro, prima che il suo sangue cessasse, irrimediabilmente, di fluire e per sempre.
Prima, e fino ad allora, non era stato il tempo della carne, perché era stato un tempo interiore che doveva attuarsi per sfuggire le persecuzioni, ma ora la carne proclamava con insistenza che esisteva, che aveva le sue ragioni, che non è come un vestito che può essere dismesso in ogni momento. E le ragioni della carne stanno nel sangue. E quel sangue ora, per troppo tempo lontano dai suoi luoghi, implorava un ritorno a quelle regioni, a quegli spazi, a quei contatti dove poteva riconoscersi e riconnettersi all’origine.
Era la voce della morte imminente? Si chiese.
E quella domanda, ormai insistente come un pungolo che mai cessa di tormentare, aprì spazi infiniti per cui la coscienza di quella lontananza divenne senza limiti, incontenibile al cuore di padre e di fratello.
Mormorò i tre nomi, uno dopo l’altro, perché quell’universo di sconforto non se li portasse via.
Vi amo! furono le ultime parole, che respirò nel gelo di quella terra dove mai cessava il freddo.

E ora, quella neve benedetta, o maledetta, che silenziava tutto, di nuovo aveva preso a cadere, impietosa o misericordiosa difficile decifrarla, sui suoi passi verso casa, che vedeva già le luci oltre gli alberi appena dietro il promontorio, e ammorbidì stranamente la pesantezza che si portava dentro passo dopo passo, di ritorno dal luogo in cui andava a lavorare ogni giorno. Ma che lavoro era il suo? Nemmeno più lo sapeva. Un po’ faceva l’agente, un po’ smistava studenti da un paese all’altro per esperienze di lavoro, un po’ faceva lo scrittore senza successo.
Un lavoro, pensò, di uno che non ha più identità. Di uno che forse si appressa alla morte disintegrato dal nulla del mondo che era e non è più e tuttavia chiede di essere riconosciuto in forme che non sono più quelle in cui lo si era conosciuto e convissuto credendole vere ed eterne.
E ora gli rimaneva la preghiera, l’unica forza identitaria che lo faceva essere quello che ancora riusciva a dire di essere, a negare di non essere, a implorare di conoscere perché più non sapeva che conoscere.

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