Presento qui, di nuovo, un capitoletto in fase di scrittura del mio nuovo romanzo in fieri "Essere mio padre"
Le vacanze ad agosto erano un punto fermo per Silvia.
Da anni ormai le faceva a Castiglion della Pescaia. Vi era andata negli anni in ricordo di un giorno che vi aveva passato da piccola, stregata per tutta la vita dalla bellezza di quel luogo, che era rimasta dentro di lei, come un penetrale intatto e impossibile da violare.
Castiglion della Pescaia era dove la madre aveva scattato la foto con il padre in maglietta rossa un giorno che da Marina di Castagneto Carducci, dove erano in vacanza, la prima vacanza della sua vita, avevano fatto un giro in macchina e vi si erano fermati per visitare la rocca di Castiglion della Pescaia appollaiata in alto sulla rupe...Si ricordava.
Ma quell’anno volle che fosse di nuovo Marina di Castagneto di Carducci. Il punto di partenza della sua vita. Su quelle ampie spiagge infatti era andata per la prima volta al mare che era piccolissima. Su quelle spiagge, incredibilmente ricordava, aveva imparato a camminare tra mille cadute in cui si era riempita la bocca di sabbia e di altrettanti mille pianti, ma alla fine ne era uscita vincitrice ed aveva imparato a camminare.
Soprattutto voleva far conoscere quel luogo a Rachele, la piccolina, che era la fotocopia di Silvia da piccola. Voleva trasmetterle le sue stesse sensazioni che lì su quelle spiagge aveva sperimentato molti anni prima per far sì che ancor di più somigliasse a lei.
Non poteva essere un caso che quell’anno avesse dentro di sé quel desiderio.
Doveva in qualche modo percorrere a ritroso il cammino fatto con suo padre, per capire meglio quello che aveva portato lei ad essere quello che era divenuta.
Si piaceva? Non lo sapeva. Di certo non si dispiaceva. C‘erano aspetti che non amava di se stessa. Ma alla fine nemmeno sapeva quali. Li intuiva quando per le circostanze del vivere le si imponevano. Ma poi li dimenticava.
Per esempio era troppo, eccessivamente, apprensiva per i suoi figli. Troppo dura con Alessandro. Troppo severa con le sue bimbe, come chiamava le bambine che allenava. Talora snobbava Claudia, non le dava importanza, soprattutto quando aveva momenti di depressione...ma alla fine non si dispiaceva. Si amava. Amava il suo corpo, amava il suo Sé. ma quel Sé che lei era divenuta come capirlo? Esisteva dentro di lei un luogo, che poteva dire: quella sono io? C‘era davvero dentro di lei quel Sé capace di spiegare a lei stessa quello che lei era? Quel Sé che come un punto, indistinguinile dal tutto, l‘aveva creata e senza il quale non sarebbe esistita? E se esisteva da dove veniva?
Era semplicemente questo quello che pensava distesa al sole, lontana dal lavoro, lontana dalla vita di ogni giorno, guardando le onde del mare scendere morbide verso la battigia e con un boccheggìo dolce poi scomparire ritraendosi e cercava con gli occhi la riga dell‘orizzonte in cui cielo e mare coincidevano e si annullavano unendosi, in un punto indistinguibile. Sotto quello stesso sole immisericordioso di tanti anni prima fra le braccia del padre aveva mirato in lontananza quella medesima linea di congiunzione e quel punto dove il tutto si rivelava. E ora era di nuovo lì, quarantanni dopo.
E i giorni avevano preso a passare pigri, come il sale e il sole che sulla pelle scivolavano lenti e tuttavia lenivano il dolore degli ultimi due anni passati in cattività.
In lontananza dal bar suonava una canzone
O mio Signore
In questo mondo
Io non ho avuto tanto
Eppure sono contento...
Ascoltò meglio, conosceva quella canzone
O mio Signore
Io ti ringrazio
In ogni cosa che ho avuto
Grazie per tutto quello
Che tu hai fatto per me...
Era una canzone che conosceva e aveva sentito da piccola. Chi la cantava?
Mamma che fai? Rachele si era avvicinata. Aveva smesso di fare le buche nella rena. Teneva in una mano un secchiello colmo d’acqua e nell’altra una paletta. Aveva in testa un fazzoletto annodato e la bocca tutta sporca di sabbia.
Silvia la guardò. Dio mio, ma tu...
Io che mamma?
Tu... (tu sei me! – stava per dire)
Tu hai la bocca tutta sporca di rena...rimediò.
Sono caduta mamma. Ti ho chiamato ma non mi hai risposto.
Rachele...non ti ho sentito. Scusami. Mi sono distratta, ascoltavo quella canzone...
Che canzone?
Quella musica che viene dal bar...
Ma non c’è nessuna musica mamma.
Ma che dici? Io ho sentito una canzone.
Mamma ti sbagli. Ascolta.
Le vacanze ad agosto erano un punto fermo per Silvia.
Da anni ormai le faceva a Castiglion della Pescaia. Vi era andata negli anni in ricordo di un giorno che vi aveva passato da piccola, stregata per tutta la vita dalla bellezza di quel luogo, che era rimasta dentro di lei, come un penetrale intatto e impossibile da violare.
Castiglion della Pescaia era dove la madre aveva scattato la foto con il padre in maglietta rossa un giorno che da Marina di Castagneto Carducci, dove erano in vacanza, la prima vacanza della sua vita, avevano fatto un giro in macchina e vi si erano fermati per visitare la rocca di Castiglion della Pescaia appollaiata in alto sulla rupe...Si ricordava.
Ma quell’anno volle che fosse di nuovo Marina di Castagneto di Carducci. Il punto di partenza della sua vita. Su quelle ampie spiagge infatti era andata per la prima volta al mare che era piccolissima. Su quelle spiagge, incredibilmente ricordava, aveva imparato a camminare tra mille cadute in cui si era riempita la bocca di sabbia e di altrettanti mille pianti, ma alla fine ne era uscita vincitrice ed aveva imparato a camminare.
Soprattutto voleva far conoscere quel luogo a Rachele, la piccolina, che era la fotocopia di Silvia da piccola. Voleva trasmetterle le sue stesse sensazioni che lì su quelle spiagge aveva sperimentato molti anni prima per far sì che ancor di più somigliasse a lei.
Non poteva essere un caso che quell’anno avesse dentro di sé quel desiderio.
Doveva in qualche modo percorrere a ritroso il cammino fatto con suo padre, per capire meglio quello che aveva portato lei ad essere quello che era divenuta.
Si piaceva? Non lo sapeva. Di certo non si dispiaceva. C‘erano aspetti che non amava di se stessa. Ma alla fine nemmeno sapeva quali. Li intuiva quando per le circostanze del vivere le si imponevano. Ma poi li dimenticava.
Per esempio era troppo, eccessivamente, apprensiva per i suoi figli. Troppo dura con Alessandro. Troppo severa con le sue bimbe, come chiamava le bambine che allenava. Talora snobbava Claudia, non le dava importanza, soprattutto quando aveva momenti di depressione...ma alla fine non si dispiaceva. Si amava. Amava il suo corpo, amava il suo Sé. ma quel Sé che lei era divenuta come capirlo? Esisteva dentro di lei un luogo, che poteva dire: quella sono io? C‘era davvero dentro di lei quel Sé capace di spiegare a lei stessa quello che lei era? Quel Sé che come un punto, indistinguinile dal tutto, l‘aveva creata e senza il quale non sarebbe esistita? E se esisteva da dove veniva?
Era semplicemente questo quello che pensava distesa al sole, lontana dal lavoro, lontana dalla vita di ogni giorno, guardando le onde del mare scendere morbide verso la battigia e con un boccheggìo dolce poi scomparire ritraendosi e cercava con gli occhi la riga dell‘orizzonte in cui cielo e mare coincidevano e si annullavano unendosi, in un punto indistinguibile. Sotto quello stesso sole immisericordioso di tanti anni prima fra le braccia del padre aveva mirato in lontananza quella medesima linea di congiunzione e quel punto dove il tutto si rivelava. E ora era di nuovo lì, quarantanni dopo.
E i giorni avevano preso a passare pigri, come il sale e il sole che sulla pelle scivolavano lenti e tuttavia lenivano il dolore degli ultimi due anni passati in cattività.
In lontananza dal bar suonava una canzone
O mio Signore
In questo mondo
Io non ho avuto tanto
Eppure sono contento...
Ascoltò meglio, conosceva quella canzone
O mio Signore
Io ti ringrazio
In ogni cosa che ho avuto
Grazie per tutto quello
Che tu hai fatto per me...
Era una canzone che conosceva e aveva sentito da piccola. Chi la cantava?
Mamma che fai? Rachele si era avvicinata. Aveva smesso di fare le buche nella rena. Teneva in una mano un secchiello colmo d’acqua e nell’altra una paletta. Aveva in testa un fazzoletto annodato e la bocca tutta sporca di sabbia.
Silvia la guardò. Dio mio, ma tu...
Io che mamma?
Tu... (tu sei me! – stava per dire)
Tu hai la bocca tutta sporca di rena...rimediò.
Sono caduta mamma. Ti ho chiamato ma non mi hai risposto.
Rachele...non ti ho sentito. Scusami. Mi sono distratta, ascoltavo quella canzone...
Che canzone?
Quella musica che viene dal bar...
Ma non c’è nessuna musica mamma.
Ma che dici? Io ho sentito una canzone.
Mamma ti sbagli. Ascolta.
Ascoltò. E sentì solo lo sciacquio delle onde sulla riva, qualche grido di gabbiani, un bambino che urlava e il sole che bruciava la pelle e la brezza che asciugava la pelle imperlata leggermente di sudore.
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