Il caldo, la folla, i colori e i suoi odori. I tramonti che ti lasciano senza fiato. E i ponti, il fiume placido, il caldo afoso e cocente dell'estate.
I colori e le luci pastello e la mitezza in inverno. I colori delle vetrine, l'odore fresco e piacevole della vita in inverno. E la tramontana gelida che ti entra nelle ossa, e mulina ai crocicchi. In inverno.
Eppure mi soffocava quella città. E l'ho amata tuttavia e l'ho odiata quella città. La città della mia vita per lunghi e interminabili anni, dei miei amori, delle mie sofferenze , delle mie rade gioie. Di un lavoro monotono ed inutile. Per lunghi e interminabili anni.
Delle speranze e delle illusioni che si sovrapponevano alla disperazione del vivere in tanta bellezza e non sentirsene parte.
E come ricorda Palazzeschi le "scalinate, dunque, o strade così ripide il cui nome basta a rivelarne il carattere: Costa Scarpuccia, Erta Canina, Rampe di San Niccolò..."
Quella era un'altra parte indimenticabile della Firenze di collina, a cui qualche volta in estasi d'amore ascendevo.
Quella è la Firenze che io ricordo da qua, in questo paese essenziale in cui vivo ora. Ricordi confusi ma colorati. Lontani e quasi persi ma che finalmente dopo tanto sopirli si ravvivano, come se qualcosa oggi soffiasse sulla brace. E io stesso mi stupisco del perché improvvisa si ravvivi la fiamma, che credevo spenta.
Soprattutto ora che si è abbattuta l'Apocalisse su tutte le strade del mondo e anche su quelle stradine strette e anguste di Firenze e sulla cupola che domina la valle dell'Arno, e su piazzale Michelangelo che domina la Cupola e su Fiesole che domina il Piazzale e la cupola.
E la città immagino sarà indifferente all'Apocalisse avvolta nella sua narcisa bellezza.
Ha superato le pesti Firenze, ha superato le guerre, le alluvioni...sta ferma e raccolta in sé nella sua incontentabile bellezza e osserva la gente come da secoli fa.
Anche quando l' abitavo, Firenze era indifferente. Aveva una bellezza indifferente, che è sua e non concede. La vedevi la toccavi ma evaporava via se non la adoravi come una dèa. Era come la Primavera del Botticelli, bellissima ma lontana come una dèa ma non pudica come la Venere di Botticelli ma sfrontata. Schizzinosa come una dèa viziata. E quello sì te lo concedeva, e ti si attaccava addosso e non riuscivi più a togliertelo di dosso, il suo esser schizzinoso.
Non sono forse tutti schizzinosi i fiorentini nel loro lessico colorito? Nel loro gesticolare solenne e quasi caudatario? Nel loro continuo mutar opinione senza motivo e lamentarsi di una vita che non si accosti allo standard delle loro pretese? Nella loro presunzione di essere il paradiso del mondo?
Il fiorentino è questo, uno che sempre vive nel suo regno con evidente compiacimento non finendo mai di pulirsi e ripulirsi le vesti e le scarpe dalla terra, togliendosi di dosso qualche sudiceria, qualcosa di sgradevole che si possa essere attaccato inevitabilmente al suo modo di vivere. Uno schizzinoso, uno schifiltoso incontentabile ed esigente.
E io pure mi ero abituato a mondarmi di qualsiasi polvere o terra estranea che mi si attaccasse alle scarpe. Ed ero schifiltoso, come la città. Attaccato solo alle cose belle della superficie.
E quello era prima prima di conoscere il miškas, la foresta, prima di conoscere i takai, i sentieri che ovattati ti portano nel silenzio dell'interiorità e della meditazione ribelle.
Eppure quella dèa narcisa, arrogante e superficiale mi manca. E mi chiedo quale segno sia e che prepari. Et plenus expecto.
I colori e le luci pastello e la mitezza in inverno. I colori delle vetrine, l'odore fresco e piacevole della vita in inverno. E la tramontana gelida che ti entra nelle ossa, e mulina ai crocicchi. In inverno.
Eppure mi soffocava quella città. E l'ho amata tuttavia e l'ho odiata quella città. La città della mia vita per lunghi e interminabili anni, dei miei amori, delle mie sofferenze , delle mie rade gioie. Di un lavoro monotono ed inutile. Per lunghi e interminabili anni.
Delle speranze e delle illusioni che si sovrapponevano alla disperazione del vivere in tanta bellezza e non sentirsene parte.
E come ricorda Palazzeschi le "scalinate, dunque, o strade così ripide il cui nome basta a rivelarne il carattere: Costa Scarpuccia, Erta Canina, Rampe di San Niccolò..."
Quella era un'altra parte indimenticabile della Firenze di collina, a cui qualche volta in estasi d'amore ascendevo.
Quella è la Firenze che io ricordo da qua, in questo paese essenziale in cui vivo ora. Ricordi confusi ma colorati. Lontani e quasi persi ma che finalmente dopo tanto sopirli si ravvivano, come se qualcosa oggi soffiasse sulla brace. E io stesso mi stupisco del perché improvvisa si ravvivi la fiamma, che credevo spenta.
Soprattutto ora che si è abbattuta l'Apocalisse su tutte le strade del mondo e anche su quelle stradine strette e anguste di Firenze e sulla cupola che domina la valle dell'Arno, e su piazzale Michelangelo che domina la Cupola e su Fiesole che domina il Piazzale e la cupola.
E la città immagino sarà indifferente all'Apocalisse avvolta nella sua narcisa bellezza.
Ha superato le pesti Firenze, ha superato le guerre, le alluvioni...sta ferma e raccolta in sé nella sua incontentabile bellezza e osserva la gente come da secoli fa.
Anche quando l' abitavo, Firenze era indifferente. Aveva una bellezza indifferente, che è sua e non concede. La vedevi la toccavi ma evaporava via se non la adoravi come una dèa. Era come la Primavera del Botticelli, bellissima ma lontana come una dèa ma non pudica come la Venere di Botticelli ma sfrontata. Schizzinosa come una dèa viziata. E quello sì te lo concedeva, e ti si attaccava addosso e non riuscivi più a togliertelo di dosso, il suo esser schizzinoso.
Non sono forse tutti schizzinosi i fiorentini nel loro lessico colorito? Nel loro gesticolare solenne e quasi caudatario? Nel loro continuo mutar opinione senza motivo e lamentarsi di una vita che non si accosti allo standard delle loro pretese? Nella loro presunzione di essere il paradiso del mondo?
Il fiorentino è questo, uno che sempre vive nel suo regno con evidente compiacimento non finendo mai di pulirsi e ripulirsi le vesti e le scarpe dalla terra, togliendosi di dosso qualche sudiceria, qualcosa di sgradevole che si possa essere attaccato inevitabilmente al suo modo di vivere. Uno schizzinoso, uno schifiltoso incontentabile ed esigente.
E io pure mi ero abituato a mondarmi di qualsiasi polvere o terra estranea che mi si attaccasse alle scarpe. Ed ero schifiltoso, come la città. Attaccato solo alle cose belle della superficie.
E quello era prima prima di conoscere il miškas, la foresta, prima di conoscere i takai, i sentieri che ovattati ti portano nel silenzio dell'interiorità e della meditazione ribelle.
Eppure quella dèa narcisa, arrogante e superficiale mi manca. E mi chiedo quale segno sia e che prepari. Et plenus expecto.
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