I Stazione.
Iniquum iudicium ille subiit. Fu un attimo. La testa girò. La luce si spense. Fu inconsapevole. Cadde per terra.
Provò a rialzarsi. Qualcosa non lo permetteva. Lo teneva inchiodato a terra. La gamba non si muoveva. Era morta.
Alzò gli occhi verso l'acquaio dove prima lavava i piatti. Dal pavimento ove era disteso, guardandolo, gli sembrò così lontano e inarrivabile.
Seppe. Seppe, che da quel giorno la vita non sarebbe più vita. Seppe, che le gambe non lo avrebbero più portato. Seppe, che non sarebbe più stato Silvano. Qualcosa di simile, forse, ma non più Silvano. Silvano era finito. E per sempre.
Domine, clamor meus ad te veniat.
II Stazione
Ave Rex noster.
Fu posto su un alto letto ut agnus mansuetus. Dopo l’ictus, attaccato alla cannula di una flebo. Un tubo di plastica fuoriusciva dalla punta del pene e terminava in una sacca, dove confluivano i liquidi torbi delle urine.
Domine, clamor meus ad te veniat.
III Stazione
Veniva pulito, rivoltato. Nettato degli escrementi che produceva. Veniva invaso pubblicamente da mani estranee che si occupavano del suo corpo, che fino a quel giorno era stato suo e solo suo. Che fino a quel giorno aveva mantenuto privato e suo.
Domine, clamor meus ad te veniat.
IV Stazione
Davanti a quel talamo alto, circondato da sponde laterali protettive, si rivelarono i molti pensieri dei cuori di chi innanzi vi passava e a lui si appressava. Al suo cospetto si rivelava il mondo come mai prima. E conobbe Silvano il cuore della gente. Quello vero. E conturbate furono le viscera sue.
Domine, clamor meus ad te veniat.
V Stazione
Fu coatto allora al suo servizio il figlio. Il Caino. L'abietto. E lo puliva imprecando. Lo nutriva urlando. Gli sedeva vicino disperando. Ma Silvano conosceva i cuori dall'alto di quel letto che lo aveva reso immacolato, e ora divenuto la croce che quel figlio aiutava a portare. E nei pochi momenti di lucida follia, amò quel figlio, che mai dormiva, che mai riposava, che viveva votato ai bisogni senza fine del suo corpo infermo.
Domine, clamor meus ad te veniat.
VI Stazione
Et Sabatina, la moglie la madre la presenza di una vita, sedeva muta sul proprio trono di spine, al fondo del letto, con gli occhi chiusi, sopiva, nel corpo ormai dormiente. Nella fine di lui riconosceva la sua. Inorridiva talora ma poi di nuovo si assopiva. Unica consolazione a cui era grata tuttavia.
Domine, clamor meus ad te veniat.
VII Stazione
E udiva bene le parole irrisorie e di compassione spicciola, perché inetto, privo dell’autorità che solo un corpo integro riceve, capace solo di voltarsi da una parte all’altra del letto, spesso immerso negli escrementi e nel sangue. Ma il Caino, il figlio empio no, non lo scherniva. Gli urlava, imprecava ma aveva l’acqua agli occhi, di franche lagrime. Ultimo spalto di sincero rispetto, di salvaguardia, sostegno e tutela, tra lui e gli empi e iniqui che al di là del letto miravano a lui come povera cosa, ormai.
Domine, clamor meus ad te veniat.
VIII Stazione
Silvano, ora confinato fra il letto e la poltrona, guardava fuori il cielo così blu che mai aveva memoria, e le colline lontane del Montalbano e piangeva. Saranno giorni pensò che non vi vedrò più, e forse sarà una fortuna.
Guardò Sabatina, assopita come sempre sull’alto trono. Il suo ventre dilatato e morto. E pensò che presto sarebbe un giorno in cui le donne saranno diverse, e la prole verrà figliata da ventri sterili e mostrerà già il marchio ricevuto in seno. E le colline e il cielo blu non avranno bellezza e tutto sarà cupo e sottratto alla volontà. Un mondo in cui l’amore e la gioia saranno vissuti nelle catacombe come bene ultimo da esperire in segreto insieme alla Parola di Dio.
Domine,clamor meus ad te veniat.
IX Stazione
Dove siete? Dove siete amici, fratelli, parenti? Mamma, babbo? Non vi ho forse amato? Scortato fino all’ultimo dei vostri giorni? E ora io giungo solo all’ultimo dei miei. Solo lei, siede, qui, davanti ai miei occhi. Solo lui, il figlio dello scandalo, mi è ancora vicino.
Il modo intero è sull’orlo di un tradimento che io non conoscerò. Almeno in questo Dio mi è benevolo.
Domine, clamor meus ad te veniat.
X Stazione
Fu nudato Silvano e posto in un letto di ospedale e legato perché ormai folle gridava e si rifiutava a quella vigilia di morte troppo prolungata.
Ma la nudità del suo corpo, uno scherzo della vita era divenuto, ormai la pudicizia più non toccava.
Ben altre piaghe erano impresse in quel vecchio cuore che ancor più palpitava di nuova gioventù nella litania infinita “Babbino! Mammina!” che neppure i farmaci sedavano.
E la sete tormentava quella povera gola.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XI Stazione
Ai piedi del letto rimaneva solo un figlio. Abele. Quello buono. Il Caino, il figlio dello scandalo, come un gatto randagio se n’era andato. Come mai fosse esistito. Della spada che portava nel cuore nessuno se ne curava.
Sabatina, aveva ceduto prima. Ed ella non vide Silvano sottoposto agli ultimi tormenti.
Arda in pace il suo cuore che piacque a Cristo in vita e così piaccia in morte.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XII Stazione
Ecco che muore il giusto e nessuno se ne rende conto. E gli uomini giusti sono portati via e nessuno vi fa caso. E il suo ricordo sarà nella pace.
E quando esalò l’ultimo respiro, una fiamma si accese nella stanza. E il figlio buono stupì perché riconobbe il volto della fiamma, che attimi dopo scomparve.
Silvano riposa in pace, disse la fiamma.
E sparì la fiamma.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XIII Stazione
A che cosa ti assimilerò? A che cosa ti paragonerò, padre, figlio di un’Italia che non è più? A che cosa ti eguaglierò per portare avanti la tua memoria?
Seppe il Caino, il figlio dello scandalo, della morte, allertato da una luce che veniva dall’alto sole in un cielo blu come mai aveva memoria in quella terra straniera, in cui cercava ristoro.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XIV Stazione
Quando corpus morietur, fac, ut animae donetur paradisi gloria.
Riposa in pace Silvano.
Iniquum iudicium ille subiit. Fu un attimo. La testa girò. La luce si spense. Fu inconsapevole. Cadde per terra.
Provò a rialzarsi. Qualcosa non lo permetteva. Lo teneva inchiodato a terra. La gamba non si muoveva. Era morta.
Alzò gli occhi verso l'acquaio dove prima lavava i piatti. Dal pavimento ove era disteso, guardandolo, gli sembrò così lontano e inarrivabile.
Seppe. Seppe, che da quel giorno la vita non sarebbe più vita. Seppe, che le gambe non lo avrebbero più portato. Seppe, che non sarebbe più stato Silvano. Qualcosa di simile, forse, ma non più Silvano. Silvano era finito. E per sempre.
Domine, clamor meus ad te veniat.
II Stazione
Ave Rex noster.
Fu posto su un alto letto ut agnus mansuetus. Dopo l’ictus, attaccato alla cannula di una flebo. Un tubo di plastica fuoriusciva dalla punta del pene e terminava in una sacca, dove confluivano i liquidi torbi delle urine.
Domine, clamor meus ad te veniat.
III Stazione
Veniva pulito, rivoltato. Nettato degli escrementi che produceva. Veniva invaso pubblicamente da mani estranee che si occupavano del suo corpo, che fino a quel giorno era stato suo e solo suo. Che fino a quel giorno aveva mantenuto privato e suo.
Domine, clamor meus ad te veniat.
IV Stazione
Davanti a quel talamo alto, circondato da sponde laterali protettive, si rivelarono i molti pensieri dei cuori di chi innanzi vi passava e a lui si appressava. Al suo cospetto si rivelava il mondo come mai prima. E conobbe Silvano il cuore della gente. Quello vero. E conturbate furono le viscera sue.
Domine, clamor meus ad te veniat.
V Stazione
Fu coatto allora al suo servizio il figlio. Il Caino. L'abietto. E lo puliva imprecando. Lo nutriva urlando. Gli sedeva vicino disperando. Ma Silvano conosceva i cuori dall'alto di quel letto che lo aveva reso immacolato, e ora divenuto la croce che quel figlio aiutava a portare. E nei pochi momenti di lucida follia, amò quel figlio, che mai dormiva, che mai riposava, che viveva votato ai bisogni senza fine del suo corpo infermo.
Domine, clamor meus ad te veniat.
VI Stazione
Et Sabatina, la moglie la madre la presenza di una vita, sedeva muta sul proprio trono di spine, al fondo del letto, con gli occhi chiusi, sopiva, nel corpo ormai dormiente. Nella fine di lui riconosceva la sua. Inorridiva talora ma poi di nuovo si assopiva. Unica consolazione a cui era grata tuttavia.
Domine, clamor meus ad te veniat.
VII Stazione
E udiva bene le parole irrisorie e di compassione spicciola, perché inetto, privo dell’autorità che solo un corpo integro riceve, capace solo di voltarsi da una parte all’altra del letto, spesso immerso negli escrementi e nel sangue. Ma il Caino, il figlio empio no, non lo scherniva. Gli urlava, imprecava ma aveva l’acqua agli occhi, di franche lagrime. Ultimo spalto di sincero rispetto, di salvaguardia, sostegno e tutela, tra lui e gli empi e iniqui che al di là del letto miravano a lui come povera cosa, ormai.
Domine, clamor meus ad te veniat.
VIII Stazione
Silvano, ora confinato fra il letto e la poltrona, guardava fuori il cielo così blu che mai aveva memoria, e le colline lontane del Montalbano e piangeva. Saranno giorni pensò che non vi vedrò più, e forse sarà una fortuna.
Guardò Sabatina, assopita come sempre sull’alto trono. Il suo ventre dilatato e morto. E pensò che presto sarebbe un giorno in cui le donne saranno diverse, e la prole verrà figliata da ventri sterili e mostrerà già il marchio ricevuto in seno. E le colline e il cielo blu non avranno bellezza e tutto sarà cupo e sottratto alla volontà. Un mondo in cui l’amore e la gioia saranno vissuti nelle catacombe come bene ultimo da esperire in segreto insieme alla Parola di Dio.
Domine,clamor meus ad te veniat.
IX Stazione
Dove siete? Dove siete amici, fratelli, parenti? Mamma, babbo? Non vi ho forse amato? Scortato fino all’ultimo dei vostri giorni? E ora io giungo solo all’ultimo dei miei. Solo lei, siede, qui, davanti ai miei occhi. Solo lui, il figlio dello scandalo, mi è ancora vicino.
Il modo intero è sull’orlo di un tradimento che io non conoscerò. Almeno in questo Dio mi è benevolo.
Domine, clamor meus ad te veniat.
X Stazione
Fu nudato Silvano e posto in un letto di ospedale e legato perché ormai folle gridava e si rifiutava a quella vigilia di morte troppo prolungata.
Ma la nudità del suo corpo, uno scherzo della vita era divenuto, ormai la pudicizia più non toccava.
Ben altre piaghe erano impresse in quel vecchio cuore che ancor più palpitava di nuova gioventù nella litania infinita “Babbino! Mammina!” che neppure i farmaci sedavano.
E la sete tormentava quella povera gola.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XI Stazione
Ai piedi del letto rimaneva solo un figlio. Abele. Quello buono. Il Caino, il figlio dello scandalo, come un gatto randagio se n’era andato. Come mai fosse esistito. Della spada che portava nel cuore nessuno se ne curava.
Sabatina, aveva ceduto prima. Ed ella non vide Silvano sottoposto agli ultimi tormenti.
Arda in pace il suo cuore che piacque a Cristo in vita e così piaccia in morte.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XII Stazione
Ecco che muore il giusto e nessuno se ne rende conto. E gli uomini giusti sono portati via e nessuno vi fa caso. E il suo ricordo sarà nella pace.
E quando esalò l’ultimo respiro, una fiamma si accese nella stanza. E il figlio buono stupì perché riconobbe il volto della fiamma, che attimi dopo scomparve.
Silvano riposa in pace, disse la fiamma.
E sparì la fiamma.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XIII Stazione
A che cosa ti assimilerò? A che cosa ti paragonerò, padre, figlio di un’Italia che non è più? A che cosa ti eguaglierò per portare avanti la tua memoria?
Seppe il Caino, il figlio dello scandalo, della morte, allertato da una luce che veniva dall’alto sole in un cielo blu come mai aveva memoria in quella terra straniera, in cui cercava ristoro.
Domine, clamor meus ad te veniat.
XIV Stazione
Quando corpus morietur, fac, ut animae donetur paradisi gloria.
Riposa in pace Silvano.
Seguimi su Instagram: https://t.me/princasvilniuje
Comments
Post a Comment