L’uomo non muore più per la strada, ma in casa sua, nella storia, nel pieno di un’attività consacrata a vincere la morte
(Boris Pasternak – Dottor Zivago)
Fabrizio capì che quella sarebbe stata l’ultima delle loro estati. Dopo quella, per loro su questa terra, non ce ne sarebbero state altre.
I segni si erano saldati in tanti insiemi sotto quel calore che coceva l’aria e chiedeva solo ai corpi sani di fargli resistenza. Erano segni che venivano dalla carne, dal mondo che era fuori infocato dal sole di luglio, dalle TV - ormai erano solo uno scorrere di immagini che non parlavano a nessuno. Dalla politica - una deriva che nemmeno Silvano capiva più (e sì che aveva lottato fino all’ultimo barlume di senno per riuscire a trovarvi un significato nuovo). Erano segni certi, quanto era certo che non potevano più essere ignorati. Un mondo, il loro mondo, che era alla fine. E le ultime derive di quel mondo erano loro due.
Quante volte aveva sentito suo padre dire “E’ morto Vitaliano”, “E’ morto il Bartalucci, l’hai saputo Sabatina”…ma erano frasi di quando stava bene e la morte era lontana. Apparteneva all’altro.
Gli venne in mente “La morte di Ivan Ilyich” di Tolstoy, uno dei libri più noiosi che avesse tentato di leggere. Si ricordò tuttavia di una frase che più o meno suonava così “"Il semplice fatto della morte di un conoscente vicino suscitò, come al solito, in tutti coloro che avevano sentito la notizia un sentimento compiacente - è lui che è morto, non io!”
E ora, non immaginava quanto ne avessero coscienza Silvano e Sabatina, ora, presto, si sarebbe detto “Hai visto? E’ morto Silvano”, “Hai saputo che Sabatina è morta l’altro giorno”.
Sarebbero morti in quella città affossata dal caldo, al centro della Toscana. Empoli. Una città senza qualità, retta da quei neocomunisti che Silvano, per tutta la vita, aveva tanto avuto inviso.
- Quando babbo è morto c’era una luce in un angolo della stanza, quello vicino alla porta. Come …una luce dorata…non come quella di una luce elettrica…ma una luce di candela…è rimasta per tutto il tempo che rantolava. Quando ha fatto l’ultimo grande respiro, ha indugiato ancora un po’. Si affievolita e poi è scomparsa.
Così gli aveva riferito Loris.
Che avrà voluto dire quella luce? Mamma era morta in silenzio. Sotto l’effetto della morfina, che sedava il dolore dell’ulcera che si era aperta un buco vasto nello stomaco.
Fabrizio l’aspettava. Sarebbe dovuta ritornare. Aveva lasciato qualcosa insoluto in questa parte dell’universo. Attendeva certo quel giorno. I morti non possono lasciare irrisolte le attese.
Quelle due morti, una dietro l’altra, l’avevavano gettato nella sensazione che evoca una partenza improvvisa di ospiti che si erano a lungo trattenuti.
Rimangono gli odori, i suoni muti ma chiari delle loro conversazioni, della loro lingua, del mondo che loro rappresentavano. Rimane tutto in sospeso, in attesa che la vita riprenda come prima. Non li pensi come morti, ma come partiti, diretti alle loro case, ai loro lavori, alle loro occupazioni. Alla loro vita di tutti i giorni.
Ecco, Fabrizio non li pensava morti, li immaginava esattamente così. Non aveva bisogno di prendere il telefono e chiamarli. Non aveva mai smesso di comunicare con loro.
Avrebbe proseguito tante cose che loro gli avevano insegnato. Avrebbe fatto il brodo di carne come facevano loro, avrebbe fatto la pasta e fagioli come facevano loro, avrebbe cotto il coniglio come gli avevano insegnato loro, avrebbe spazzato la cucina come facevano loro ogni volta che avevano finito il pranzo e la cena. Avrebbe lavato ogni sera i piatti come loro facevano, avrebbe messo gli avanzi della cena in piccoli tegami per conservarli meglio in frigo come facevano sempre loro…si sarebbe alzato da letto aiutandosi con le mani nello stesso modo che faceva suo padre, e se ne sarebbe sorpreso a ritrovarsi nella stessa postura. Avrebbe avuto il carattere burbero e ombroso di sua madre, avrebbe avuto le loro stesse idee sull’aiutare gli altri, né più né meno avrebbe sempre più assomigliato a loro ogni giorno di più…
Suo padre non era morto di cancro, era morto di consunzione, consunto, probabilmente, da quella stessa rabbia che lo aveva tenuto in vita.
Consunto come questa povera Italia, che oltre a tutte le ingerenze di tutti i servizi segreti, alla sottomissione della propria sovranità a tutte le forze estere possibili, era anche divorata da una sovrapposizione interna di poteri. Dal potere della magistratura che si era sostituito a quello politico, e da quello politico (almeno quella parte che del marxismo culturale aveva fatto il proprio cavallo di battaglia) che si era per convenienza sottomesso a quello della magistratura.
Ci si era mossi per teoremi per condannare. Si erano applicati teoremi a fenomeni politici per ottenere effetti mediatici. Il fenomeno mediatico era ormai l’effetto trainante dei due poteri.
- La legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto[1].
Il primo grande teorema fu quello definito ‘Teorema Calogero”, dal nome del giudice Pietro Calogero della Procura della Repubblica di Padova, che collegò le responsabilità di alcuni docenti universitari predicanti l'eversione (cattivi maestri) con le azioni terroristiche. E fu in quegli anni che ci si cominciò a rerndere conto della forza di fuoco della magistratura che poteva supplire uno stato in evidente difficoltà.
Ma fu ai tempi di Tangentopoli che che l’ombra dell’ideologia della questione morale inaugurata da Berlinguer, nel tentativo di trovare un’alternativa allo scacco subito con la morte di Moro, convinse una parte della magistratura, quella più forte, di avere una funzione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma anche di redimere l’Italia.
Berlusconi con la sua discesa in campo riaprì un clima da guerra fredda, e la sinistra che visse quella nuova guerra fredda trasformando la questione morale in antiberlusconismo e identificando tutto il male con Berlusconi rafforzò de facto il potere della magistratura, affidandosi ad essa per combattere l’ispiratore stesso della propria politica di quegli anni: Silvio Berlusconi.
Come sempre ci si concentrò da una parte sul proprio orticello da coltivare e dall’altra ci si fece proni a quei poteri che muovevano l’Europa (che poi erano gli stessi che ormai muovevano il globo tutto).
Ma Silvano e Sabatina erano scivolati via, passati silenziosamente attraverso queste nuove linee di realtà, come facendo uno specie di trans-surfing, che la vecchiaia gli aveva imposto.
Vissero attaccati a quel nuovo mezzo di trasporto, ma per loro fortuna (o sfortuna?) questa nuova realtà non li catturò più, e ne furono finalmente liberi.
Si liberarono da quella morte odiosa, il 1943, che aveva impresso la spinta deterministica della loro vita di silenziosa remissione alla quotidianità.
Ma loro non morirono con il fucile in braccio urlando il proprio credo come forse morì Rocco e i partigiani che combattevano Rocco – ma in nome di che? visto gli innumerevoli tradimenti perpetrati alla memoria del loro inutili sacrifici.
Morirono invece, mangiati dalla vecchiaia, in un letto di ospedale, incapaci di intendere e volere, incapaci di esprime anche la più frequente delle paure dell’uomo davanti alla morte: quella di morire soli, abbandonati dai propri amati.
Morirono inconsci di tutto, anche del loro corpo ridotto a una carcassa priva di senso. Morirono, e basta.
Ma Fabrizio sorrise, lungo il viale alberato su cui inondava luce quel cielo nuovo che lo accoglieva. Sorrise dentro alla voce del padre che gli parlava, dentro. Sorrise dentro a quella nuova quantità di coscienza che rinasceva, sotto altra forma. E che adesso percorreva altri mondi lontani, eppure vicini.
[1] Piero Tony, magistrato (ex magistratura democratica)
(Boris Pasternak – Dottor Zivago)
Fabrizio capì che quella sarebbe stata l’ultima delle loro estati. Dopo quella, per loro su questa terra, non ce ne sarebbero state altre.
I segni si erano saldati in tanti insiemi sotto quel calore che coceva l’aria e chiedeva solo ai corpi sani di fargli resistenza. Erano segni che venivano dalla carne, dal mondo che era fuori infocato dal sole di luglio, dalle TV - ormai erano solo uno scorrere di immagini che non parlavano a nessuno. Dalla politica - una deriva che nemmeno Silvano capiva più (e sì che aveva lottato fino all’ultimo barlume di senno per riuscire a trovarvi un significato nuovo). Erano segni certi, quanto era certo che non potevano più essere ignorati. Un mondo, il loro mondo, che era alla fine. E le ultime derive di quel mondo erano loro due.
Quante volte aveva sentito suo padre dire “E’ morto Vitaliano”, “E’ morto il Bartalucci, l’hai saputo Sabatina”…ma erano frasi di quando stava bene e la morte era lontana. Apparteneva all’altro.
Gli venne in mente “La morte di Ivan Ilyich” di Tolstoy, uno dei libri più noiosi che avesse tentato di leggere. Si ricordò tuttavia di una frase che più o meno suonava così “"Il semplice fatto della morte di un conoscente vicino suscitò, come al solito, in tutti coloro che avevano sentito la notizia un sentimento compiacente - è lui che è morto, non io!”
E ora, non immaginava quanto ne avessero coscienza Silvano e Sabatina, ora, presto, si sarebbe detto “Hai visto? E’ morto Silvano”, “Hai saputo che Sabatina è morta l’altro giorno”.
Sarebbero morti in quella città affossata dal caldo, al centro della Toscana. Empoli. Una città senza qualità, retta da quei neocomunisti che Silvano, per tutta la vita, aveva tanto avuto inviso.
- Quando babbo è morto c’era una luce in un angolo della stanza, quello vicino alla porta. Come …una luce dorata…non come quella di una luce elettrica…ma una luce di candela…è rimasta per tutto il tempo che rantolava. Quando ha fatto l’ultimo grande respiro, ha indugiato ancora un po’. Si affievolita e poi è scomparsa.
Così gli aveva riferito Loris.
Che avrà voluto dire quella luce? Mamma era morta in silenzio. Sotto l’effetto della morfina, che sedava il dolore dell’ulcera che si era aperta un buco vasto nello stomaco.
Fabrizio l’aspettava. Sarebbe dovuta ritornare. Aveva lasciato qualcosa insoluto in questa parte dell’universo. Attendeva certo quel giorno. I morti non possono lasciare irrisolte le attese.
Quelle due morti, una dietro l’altra, l’avevavano gettato nella sensazione che evoca una partenza improvvisa di ospiti che si erano a lungo trattenuti.
Rimangono gli odori, i suoni muti ma chiari delle loro conversazioni, della loro lingua, del mondo che loro rappresentavano. Rimane tutto in sospeso, in attesa che la vita riprenda come prima. Non li pensi come morti, ma come partiti, diretti alle loro case, ai loro lavori, alle loro occupazioni. Alla loro vita di tutti i giorni.
Ecco, Fabrizio non li pensava morti, li immaginava esattamente così. Non aveva bisogno di prendere il telefono e chiamarli. Non aveva mai smesso di comunicare con loro.
Avrebbe proseguito tante cose che loro gli avevano insegnato. Avrebbe fatto il brodo di carne come facevano loro, avrebbe fatto la pasta e fagioli come facevano loro, avrebbe cotto il coniglio come gli avevano insegnato loro, avrebbe spazzato la cucina come facevano loro ogni volta che avevano finito il pranzo e la cena. Avrebbe lavato ogni sera i piatti come loro facevano, avrebbe messo gli avanzi della cena in piccoli tegami per conservarli meglio in frigo come facevano sempre loro…si sarebbe alzato da letto aiutandosi con le mani nello stesso modo che faceva suo padre, e se ne sarebbe sorpreso a ritrovarsi nella stessa postura. Avrebbe avuto il carattere burbero e ombroso di sua madre, avrebbe avuto le loro stesse idee sull’aiutare gli altri, né più né meno avrebbe sempre più assomigliato a loro ogni giorno di più…
Suo padre non era morto di cancro, era morto di consunzione, consunto, probabilmente, da quella stessa rabbia che lo aveva tenuto in vita.
Consunto come questa povera Italia, che oltre a tutte le ingerenze di tutti i servizi segreti, alla sottomissione della propria sovranità a tutte le forze estere possibili, era anche divorata da una sovrapposizione interna di poteri. Dal potere della magistratura che si era sostituito a quello politico, e da quello politico (almeno quella parte che del marxismo culturale aveva fatto il proprio cavallo di battaglia) che si era per convenienza sottomesso a quello della magistratura.
Ci si era mossi per teoremi per condannare. Si erano applicati teoremi a fenomeni politici per ottenere effetti mediatici. Il fenomeno mediatico era ormai l’effetto trainante dei due poteri.
- La legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto[1].
Il primo grande teorema fu quello definito ‘Teorema Calogero”, dal nome del giudice Pietro Calogero della Procura della Repubblica di Padova, che collegò le responsabilità di alcuni docenti universitari predicanti l'eversione (cattivi maestri) con le azioni terroristiche. E fu in quegli anni che ci si cominciò a rerndere conto della forza di fuoco della magistratura che poteva supplire uno stato in evidente difficoltà.
Ma fu ai tempi di Tangentopoli che che l’ombra dell’ideologia della questione morale inaugurata da Berlinguer, nel tentativo di trovare un’alternativa allo scacco subito con la morte di Moro, convinse una parte della magistratura, quella più forte, di avere una funzione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma anche di redimere l’Italia.
Berlusconi con la sua discesa in campo riaprì un clima da guerra fredda, e la sinistra che visse quella nuova guerra fredda trasformando la questione morale in antiberlusconismo e identificando tutto il male con Berlusconi rafforzò de facto il potere della magistratura, affidandosi ad essa per combattere l’ispiratore stesso della propria politica di quegli anni: Silvio Berlusconi.
Come sempre ci si concentrò da una parte sul proprio orticello da coltivare e dall’altra ci si fece proni a quei poteri che muovevano l’Europa (che poi erano gli stessi che ormai muovevano il globo tutto).
Ma Silvano e Sabatina erano scivolati via, passati silenziosamente attraverso queste nuove linee di realtà, come facendo uno specie di trans-surfing, che la vecchiaia gli aveva imposto.
Vissero attaccati a quel nuovo mezzo di trasporto, ma per loro fortuna (o sfortuna?) questa nuova realtà non li catturò più, e ne furono finalmente liberi.
Si liberarono da quella morte odiosa, il 1943, che aveva impresso la spinta deterministica della loro vita di silenziosa remissione alla quotidianità.
Ma loro non morirono con il fucile in braccio urlando il proprio credo come forse morì Rocco e i partigiani che combattevano Rocco – ma in nome di che? visto gli innumerevoli tradimenti perpetrati alla memoria del loro inutili sacrifici.
Morirono invece, mangiati dalla vecchiaia, in un letto di ospedale, incapaci di intendere e volere, incapaci di esprime anche la più frequente delle paure dell’uomo davanti alla morte: quella di morire soli, abbandonati dai propri amati.
Morirono inconsci di tutto, anche del loro corpo ridotto a una carcassa priva di senso. Morirono, e basta.
Ma Fabrizio sorrise, lungo il viale alberato su cui inondava luce quel cielo nuovo che lo accoglieva. Sorrise dentro alla voce del padre che gli parlava, dentro. Sorrise dentro a quella nuova quantità di coscienza che rinasceva, sotto altra forma. E che adesso percorreva altri mondi lontani, eppure vicini.
[1] Piero Tony, magistrato (ex magistratura democratica)
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