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"Poker a Vilnius" di Ričardas Gavelis



Una stretta fenditura fra due alti edifici, una breccia in una parete incrostata di finestre cieche. Uno strano passaggio a un altro mondo. Di là, cani e bambini scorrazzano, di qua, una strada vuota e grumi di polvere portati dal vento. Una faccia bislunga rivolta verso di me: labbra sottili, guance scavate, occhi silenti (forse marroni) - una faccia di donna, latte e sangue, richiesta e tormento, divinità e depravazione, canto e mutismo. Una vecchia casa nelle spire di pampani di uva selvatica nei recessi di un giardino. Più a sinistra meli rinsecchiti, a destra foglie gialle sparpagliate svolazzano nell'aria, anche se i rami dei cespugli non mostrano fremito...
Così mi svegliai quella mattina (come certe mattine) sotto i presagi di immagini dolorosamente chiare, che non è rimesso alle tue facoltà inventare o scegliere. Qualcun altro lo fa per te e risuonano nel silenzio e penetrano nel cervello che ancora dorme, e di nuovo scompaiono. Impossibili da cancellare. Quel silenzioso presagio colorerà il tuo giorno intero. Non sfuggirai, non potrai sottrarti a quel presagio. Dovresti non aprire gli occhi, dovresti non sollevare la testa dal cuscino. Ma tu obbedisci e apri gli occhi e di nuovo vedi la tua camera, i libri negli scaffali, gli abiti gettati sulla sedia. Involontariamente ti chiedi chi abbia scelto quella melodia in cui vivi. Perché puoi solo seguire quel suono e non un altro? Chi è il Demiurgo segreto della tua disgrazia? Ti è almeno concesso di scegliere la tua melodia, o la tua mente è già di Loro prigioniera e in catene?
È importante capire se queste immagini sono un groviglio di luoghi visti prima, di volti, o scene senza colore di eventi, o se per la prima volta si mostrano. I ricordi colorano la vita con tinte più o meno familiari. Ed è pericoloso quel giorno che inizia senza visioni. In quei giorni si spalancano abissi, e bestie fuggono dalla gabbia. In giorni simili le cose più lievi pesano più che le pesanti, le bussole indicano direzioni che non hanno nome. E simili giorni sono sempre inattesi. E così oggi (se oggi era oggi)...una vecchia casa nei recessi di un le smilze case di Karoliniškės e la strada vuota, riconobbi il cortile, dove persino i bambini passeggiano soli, giocano soli. Non mi sorprese dunque quella faccia, la sua faccia. La faccia bislunga di una madonna impaurita. Occhi, che guardavano non me, ma erano diretti dentro se stessa.
E l'angoscia crescevano una vecchia casa di legno dalle pareti annerite di pioggia e le foglie gialle, che vorticavano nell'aria portate da un vento giallo. Una casa che era ammonimento, premonizione sussurrata da labbra umide.
E l'angoscia cresceva il sogno, ripieno di uccelli, che picchiavano con le ali sui cumuli di neve bianca e sollevavano spruzzi di neve gelida, che aveva il colore di luce della luna.
Quanti uccelli può contenere un sogno?
Ve ne erano ovunque, un mondo che traboccava di un battito silente di ali impercettibili, di frasi sussurrate da un volto senza labbra e di un oppressivo vento giallo.

Il sogno galleggiava dentro e fuori, né si ritraeva quando uscivo fuori, anche se il cortile era pesticciato e vuoto e un fango secco copriva il fondo come una crosta dura. Sembrava che qua, di notte, un grosso animale squallido vi si fosse rotolato. Un grande drago, coperto di squame, aveva gettato il suo alito di fuoco sulla terra e sull'asfalto. Solo lui poteva aver divorato gli uccelli: erano completamente estinti. Nemmeno l’ombra di un uccello nel cortile posto fra le case. I piccioni sporchi di Vilnius non si spintonavano più sui davanzali delle finestre dove barcollanti vecchiette li nutrivano da sempre. I soliti passeri arruffati non saltellavano più sui balconi. Non un uccello, nemmeno uno. Sembrava che qualcuno li avesse cancellati tutti dal mondo con una grande gomma grigia.

La gente continuava per la propria strada. Neanche uno che si guardasse attorno con una faccia meravigliata come la mia. Non vedevano, niente. A me solo mancavano gli uccelli. Forse neanche dovevano esistere, forse non ne esisteva e non ne era mai esistito neppure uno in tutto il mondo?
Avevo forse solamente sognato un sogno malato, vi avevo visto qualcosa di insano che avevo chiamato „uccelli“?
Ma davvero, quello che ricordavo, che conoscevo sugli uccelli, era nient’altro che una fantasia patologica, una paranoia sugli uccelli?
Quei pensieri sembravano offuscare la mia attenzione. Altrimenti avrei subito individuato la donna dal volto grinzoso, avrei percepito quel suo modo di guardare opprimente. Credevo di avere abbastanza esperienza. Passai oltre lungo il sentiero calpestato nell'erba, gettai un‘occhiata al semaforo verde e coraggiosamente attraversai.

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