A novantaquattro anni Silvano cercava solo di resistere. Di forzare il fisico a fare quello che non poteva più fare e la mente di conseguenza aveva difficoltà a stare al passo della volontà. Sabatina era confinata ad una sedia a rotelle. Camminava poco e a malapena. Era troppo grassa. Tante volte glielo aveva detto che doveva dimagrire.
— Io grassa? Ho solo lo stomaco gonfio — rispondeva. Lei non si vedeva grassa. Tutt’altro.
In quella nebbia di vecchiaia che gli avvolgeva il cervello (pressione alta, prostata, vene varicose, medicine in quantità industriale) cercava di trovare la strada. Di riorganizzare la sua visione che sentiva spengersi.
Aveva capito che se si spengeva quella visione avrebbe perso contatto con il resto del mondo. Era l’ultimo legame fra lui e il mondo fuori, quella visione. E aveva lottato negli ultimi anni per mantenerla.
Fino al crollo di Craxi era stato un leone. Un cavallo da battaglia, una bestia. Uno che non mollava mai. Che tornava da Roma la notte a mezzanotte e alle quattro del mattino si alzava per andare alla stazione e riprendere il treno per ritornare a Roma, solo per risparmiare sulla diaria che gli dava il partito.
Quando crollò il PSI, capì che era arrivato alla fine anche lui. Che finito Craxi sarebbe finito anche il suo lavoro, che il partito per cui aveva lottato e dato la vita non ci sarebbe stato più, che tutti quelli che sarebbero venuti dopo non sarebbero stati che nomi, aggiustamenti per ritardare una fine che non poteva essere ritardata ancora. La fine era stata decisa molto prima della fine.
Quel giorno per Silvano fu un altro 8 settembre 1943, un giorno in cui l’Italia di nuovo morí. Morì infatti la Prima Repubblica. E la Seconda non fu certo meglio. Se nella Prima era ancora l’Italia degli Italiani, nella Seconda vi era di tutto.
E poi arrivò la terza Repubblica quella più devastante, quella di Monti, Renzi e del PD. Quella dei burocrati di Bruxelles sordi a ogni voce dei popoli di Europa, la Bruxelles delle banche, dell’immigrazione di massa.
Dopo mesi di completo scoramento, di speranza in un riscatto di Craxi da Hammamet dove si era rifugiato per evitare l’arresto, una fuga concordata con la magistratura in realtà, Silvano aveva avvertito la perdita della visione che fino ad allora l’aveva sempre guidato.
Ma quella perdita aveva radici lontane. Risaliva al ’92. Nel suo tentativo di mantenersi lucido Silvano, nei giorni della vecchiaia malata si ricordò che poco prima della fine di Craxi Silvano aveva avuto un colloquio con un politico, uno di quelli che sarebbe sopravvissuto a tutte le Repubbliche. Uno di quelli che avrebbe spinto l’Italia a entrare nell’ inferno dell’Europa (come Craxi stesso l’aveva definita), salvo poi farne ammenda molti anni dopo e dichiarare che erano stati avvertiti da tanti economisti, anche americani, che l’Europa non avrebbe funzionato.
— L’aria sta cambiando. E’ chiaro che sta cambiando - gli aveva preconizzato - Qualcuno ha annusato che l'aria sta cambiando e si stanno organizzando per determinare condizioni più favorevoli affinché questa aria da cambiare produca un vento che soffi in modo più spedito.
— A che si riferisce onorevole?
— Che Craxi con Sigonella ha toccato il punto più alto nella politica estera italiana. Gli americani gliel’hanno giurata. Non andrà molto lontano.
— Ma Craxi lo sa?
— Beh, credo ne sia conscio.
— Forse si stanno cercando nuovi interlocutori in questo paese.
— È possibile. È possibile che i comunisti siano diventati più credibili di noi. Abbiamo puntato troppo su una politica filopalestinese. E poi con loro hanno cominciato dal Sessanta ad avere incontri. Credo che ora siano pronti a collaborare. Ci credono. Ritengono affidabili i comunisti. Vedono in loro una organizzazione strutturata, una macchina da business su cui fare affidamento.
Quella sera Silvano si rammentava di essere ritornato a casa pieno di presentimenti sul futuro del partito e paure sul suo.
- Forse dovrò cambiare lavoro.
- Perché? – gli chiese Sabatina.
- Ho intenzione di mettermi a fare l’assicuratore. Di aprire un’agenzia di assicurazioni.
- Ma come? Per anni non hai inteso ragioni. Partito, partito e partito. In questa casa si è vissuto di pane e socialismo. E ora vuoi cambiare.
- I tempi non sono più quelli di una volta, Sabatina.
- Che vuoi dire?
- Voglio dire, che il nostro mondo sta per finire. Se ne apre un altro che non sarà più il nostro. Forse sarà quello di Luigi e Fabrizio. Forse più di Luigi, Fabrizio è come te. È senza coraggio. Sono preoccupato per quel ragazzo. Che farà quando noi non ci saremo più?
Sabatina tacque. Non capiva dove voleva finire Silvano con quei discorsi. Capiva però che questa volta Silvano aveva ragione. Anche lei avvertiva quello. Sentiva che non era più la donna che si era sentita una volta. Qualcosa era arrugginito, guasto, corrotto, marcio in quel mondo che li aveva finora accompagnati.
Luigi ad esempio, com’era cambiato! Da quando si era fidanzato. Da quando aveva conosciuto Maria. Da quando si era sposato soprattutto. Era divenuto chiuso, parlava poco e mai delle sue cose personali. Non era più il bambino chiacchierone che lei aveva partorito. Era un altro. E qualche volta la intimoriva, ma comunque era sempre il figlio maggiore con cui confidarsi e prendere le decisioni.
Fabrizio anche se aveva messo famiglia e sebbene avesse due figlie era sempre senza testa. Non aveva combinato molto nella sua vita. Non aveva finito l’università. E poi aveva voluto sposare quella donna, che lo avrebbe solo fatto soffrire. Era un testone. Gliel’aveva detto quando aveva avuto Monica, la prima figlia, di non sposarla quella donna. “Riconosci quella bambina ma lei non la sposare. Non è la donna per te.”
Silvano cominciava ad avere segni di cedimento. Non era l’uomo di qualche anno prima. Certe volte taceva. Si sedeva in poltrona, pareva dormisse ma non dormiva. Di tanto in tanto scoteva (tentennava) la testa come sua madre Ida. Pareva più vecchio. Era ingrassato e sotto il mento era come se avesse due bazze a causa del grasso che gli si arrotolava. Gli pendeva una pappagorgia che somigliava ai bargigli di un tacchino.
E lei, Sabatina, non voleva ammetterlo, ma sapeva di essere divenuta intollerante. E avvertiva che non amava più quell’uomo che l’aveva cosí tanto fatta soffrire. Troppi tradimenti, troppe bugie.
— Sabatina! — si riscosse Silvano dal suo torpore.
— Che c’è?
— Sai che diceva Moro?
— No.
— Che vivevamo in un paese dalla passionalità profonda e dalle strutture fragili.
— Che vuoi dire?
— Che non mi pare più così. Mi pare che viviamo in un mondo liquido, dove le strutture non ci sono più ma solo onde che ti spostano ora di qui ora di là e non riusciamo ad uscire dal gorgo in cui quelle onde ci hanno precipitati.
— Io grassa? Ho solo lo stomaco gonfio — rispondeva. Lei non si vedeva grassa. Tutt’altro.
In quella nebbia di vecchiaia che gli avvolgeva il cervello (pressione alta, prostata, vene varicose, medicine in quantità industriale) cercava di trovare la strada. Di riorganizzare la sua visione che sentiva spengersi.
Aveva capito che se si spengeva quella visione avrebbe perso contatto con il resto del mondo. Era l’ultimo legame fra lui e il mondo fuori, quella visione. E aveva lottato negli ultimi anni per mantenerla.
Fino al crollo di Craxi era stato un leone. Un cavallo da battaglia, una bestia. Uno che non mollava mai. Che tornava da Roma la notte a mezzanotte e alle quattro del mattino si alzava per andare alla stazione e riprendere il treno per ritornare a Roma, solo per risparmiare sulla diaria che gli dava il partito.
Quando crollò il PSI, capì che era arrivato alla fine anche lui. Che finito Craxi sarebbe finito anche il suo lavoro, che il partito per cui aveva lottato e dato la vita non ci sarebbe stato più, che tutti quelli che sarebbero venuti dopo non sarebbero stati che nomi, aggiustamenti per ritardare una fine che non poteva essere ritardata ancora. La fine era stata decisa molto prima della fine.
Quel giorno per Silvano fu un altro 8 settembre 1943, un giorno in cui l’Italia di nuovo morí. Morì infatti la Prima Repubblica. E la Seconda non fu certo meglio. Se nella Prima era ancora l’Italia degli Italiani, nella Seconda vi era di tutto.
E poi arrivò la terza Repubblica quella più devastante, quella di Monti, Renzi e del PD. Quella dei burocrati di Bruxelles sordi a ogni voce dei popoli di Europa, la Bruxelles delle banche, dell’immigrazione di massa.
Dopo mesi di completo scoramento, di speranza in un riscatto di Craxi da Hammamet dove si era rifugiato per evitare l’arresto, una fuga concordata con la magistratura in realtà, Silvano aveva avvertito la perdita della visione che fino ad allora l’aveva sempre guidato.
Ma quella perdita aveva radici lontane. Risaliva al ’92. Nel suo tentativo di mantenersi lucido Silvano, nei giorni della vecchiaia malata si ricordò che poco prima della fine di Craxi Silvano aveva avuto un colloquio con un politico, uno di quelli che sarebbe sopravvissuto a tutte le Repubbliche. Uno di quelli che avrebbe spinto l’Italia a entrare nell’ inferno dell’Europa (come Craxi stesso l’aveva definita), salvo poi farne ammenda molti anni dopo e dichiarare che erano stati avvertiti da tanti economisti, anche americani, che l’Europa non avrebbe funzionato.
— L’aria sta cambiando. E’ chiaro che sta cambiando - gli aveva preconizzato - Qualcuno ha annusato che l'aria sta cambiando e si stanno organizzando per determinare condizioni più favorevoli affinché questa aria da cambiare produca un vento che soffi in modo più spedito.
— A che si riferisce onorevole?
— Che Craxi con Sigonella ha toccato il punto più alto nella politica estera italiana. Gli americani gliel’hanno giurata. Non andrà molto lontano.
— Ma Craxi lo sa?
— Beh, credo ne sia conscio.
— Forse si stanno cercando nuovi interlocutori in questo paese.
— È possibile. È possibile che i comunisti siano diventati più credibili di noi. Abbiamo puntato troppo su una politica filopalestinese. E poi con loro hanno cominciato dal Sessanta ad avere incontri. Credo che ora siano pronti a collaborare. Ci credono. Ritengono affidabili i comunisti. Vedono in loro una organizzazione strutturata, una macchina da business su cui fare affidamento.
Quella sera Silvano si rammentava di essere ritornato a casa pieno di presentimenti sul futuro del partito e paure sul suo.
- Forse dovrò cambiare lavoro.
- Perché? – gli chiese Sabatina.
- Ho intenzione di mettermi a fare l’assicuratore. Di aprire un’agenzia di assicurazioni.
- Ma come? Per anni non hai inteso ragioni. Partito, partito e partito. In questa casa si è vissuto di pane e socialismo. E ora vuoi cambiare.
- I tempi non sono più quelli di una volta, Sabatina.
- Che vuoi dire?
- Voglio dire, che il nostro mondo sta per finire. Se ne apre un altro che non sarà più il nostro. Forse sarà quello di Luigi e Fabrizio. Forse più di Luigi, Fabrizio è come te. È senza coraggio. Sono preoccupato per quel ragazzo. Che farà quando noi non ci saremo più?
Sabatina tacque. Non capiva dove voleva finire Silvano con quei discorsi. Capiva però che questa volta Silvano aveva ragione. Anche lei avvertiva quello. Sentiva che non era più la donna che si era sentita una volta. Qualcosa era arrugginito, guasto, corrotto, marcio in quel mondo che li aveva finora accompagnati.
Luigi ad esempio, com’era cambiato! Da quando si era fidanzato. Da quando aveva conosciuto Maria. Da quando si era sposato soprattutto. Era divenuto chiuso, parlava poco e mai delle sue cose personali. Non era più il bambino chiacchierone che lei aveva partorito. Era un altro. E qualche volta la intimoriva, ma comunque era sempre il figlio maggiore con cui confidarsi e prendere le decisioni.
Fabrizio anche se aveva messo famiglia e sebbene avesse due figlie era sempre senza testa. Non aveva combinato molto nella sua vita. Non aveva finito l’università. E poi aveva voluto sposare quella donna, che lo avrebbe solo fatto soffrire. Era un testone. Gliel’aveva detto quando aveva avuto Monica, la prima figlia, di non sposarla quella donna. “Riconosci quella bambina ma lei non la sposare. Non è la donna per te.”
Silvano cominciava ad avere segni di cedimento. Non era l’uomo di qualche anno prima. Certe volte taceva. Si sedeva in poltrona, pareva dormisse ma non dormiva. Di tanto in tanto scoteva (tentennava) la testa come sua madre Ida. Pareva più vecchio. Era ingrassato e sotto il mento era come se avesse due bazze a causa del grasso che gli si arrotolava. Gli pendeva una pappagorgia che somigliava ai bargigli di un tacchino.
E lei, Sabatina, non voleva ammetterlo, ma sapeva di essere divenuta intollerante. E avvertiva che non amava più quell’uomo che l’aveva cosí tanto fatta soffrire. Troppi tradimenti, troppe bugie.
— Sabatina! — si riscosse Silvano dal suo torpore.
— Che c’è?
— Sai che diceva Moro?
— No.
— Che vivevamo in un paese dalla passionalità profonda e dalle strutture fragili.
— Che vuoi dire?
— Che non mi pare più così. Mi pare che viviamo in un mondo liquido, dove le strutture non ci sono più ma solo onde che ti spostano ora di qui ora di là e non riusciamo ad uscire dal gorgo in cui quelle onde ci hanno precipitati.
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