Foto Živile Abrutytė |
Voleva dire “Sì” e invece disse “No”. E quando riuscì a dire “Sì” la voce dentro urlò “No”.
Era come procedere per tesi e antitesi senza sintesi, perché non vi era una sintesi, perché non vi era logica. Per esserci una sintesi deve esserci una logica, una possibilità di concludere attraverso A + B.
Se guardava un bambino e si commoveva, qualcosa dentro gli diceva “E’ un essere umano schifoso”.
Dapprima erano rare ma poi divennero consistenti.
Certe volte aveva paura a parlare con Rūta. Temeva che la voce parlasse contro di lei. Non lo avrebbe tollerato.
Certe volte riusciva a sopprimere per tempo la voce ma negli ultimi tempi erano divenute acute, persistenti e improvvise sebbene non frequenti.
Non che cominciasse ad averne paura. Era sensazione di sorpresa che provava, non paura.
No, non temeva di essere malato. Rimaneva indeciso fra “sono io che parlo o è qualcun altro che parla dentro di me?”.
Temeva di essere lui, si chiedeva però come fosse possibile che potesse pensare una cosa e improvvisamente una sensazione di una lama di vetro tagliante gli recidesse dentro l’onesta di quello che aveva affermato.
Sono veramente io a pensare questo? Dio mio spero di no! Sarei un essere mostruoso.
Era una situazione relativamente nuova. Anche in Italia l’aveva avuta.
Ripetutamente, si ricordava, aveva avuto la voglia di gettare la tazzina di caffè in faccia alla persona con cui conversava al bar mentre bevevano in armonia un espresso.
O trovare segni di disgusto nelle persone che gli erano vicine e amava…
Erano sintomi che aveva avuto anche in Italia e di cui si era sentito colpevole. Ma in Italia era infelice…qui era finalmente felice.
Perché allora? Perché qui che era felice si erano acuite le voci?
Forse la felicità intimoriva quella parte di lui che creava le voci?
O forse era la risposta di quella parte al suo nuovo stato di felicità? La parte veniva negata e diveniva più violenta nella sua richiesta di vita?
Spesso a Vilnius camminava per strada e vedeva delle belle ragazze. “Vacca di merda” era la prima voce che gli veniva alla mente.
Quando era in filobus pieno di gente, tutti muti senza parlare, pensava ai loro intestini a loro buchi di culo che cagavano merda. “Morirete tutti un giorno, come me!”, gli dettava la voce impietosa.
Solo Rūta, come se fosse rinchiusa in un santuario immune alle maledizioni, resisteva a quelle voci. E se qualche volta ne aveva sentito l’intenzionalità le aveva soppresse dando un cazzotto o una testata nel muro per bloccarle sul nascere con un atto di dolore estremo.
Forse quelle voci erano come luoghi inconsci di un'attività secondaria, quasi lo stato di un ascetismo imposto loro dalle attività primarie della coscienza.
Forse era stanco dei soliti abiti, delle solite scarpe, dei soliti passi, dei soliti luoghi...quando la voce dentro gli faceva sentire quella parola "solito" un'altra urlava più prepotente "cambia!".
Forse tutto nasceva così.
Forse le voci nascevano per reazione.
Quelle voci erano attività che invalidavano la sua felicità.
Aveva bisogno di motivazioni. E le voci sarebbero scomparse.
Sì, sarebbero scomparse e avrebbe recuperato il ritmo e il gioco della felicità.
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