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I dubbi di Silvia sull'eredità morale del padre morto al ritorno delle vacanze

 



Dal capitolo XVIII del mio libro in progress "Essere mio padre"

Il ritorno a casa dopo le vacanze non fu indolore. Ritornare dalle vacanze non è mai indolore, perché il passaggio da uno stato in cui il dolore della vita quotidiana è momentaneamente sospeso e ridotto a livello di piacere pigro di esistere (il sole, la spiaggia, il caldo, il mare, il riposo...) di ritmi bassi e lenti, provoca un improvviso quanto indesiderato ritorno a quel dolore che pare infinito e frenetico di ogni giorno e ci procura spesso ansia, paura, smarrimento e depressione.

Soprattutto si incontrò improvvisamente gettata, dopo l’intervista di pochi mesi prima, in un mondo nuovo a cui non era usa, in cui tutti ora la cercavano per avere una parola su quel padre che di colpo era divenuto uno scrittore celebre, post-mortem. E lei essendo la figlia maggiore era reputata come la persona adatta a parlarne.

In questa situazione, si ritrovò appunto gettata alla fine delle vacanze, ora che era tornata a casa. E si ritrovò a fare il punto sui vantaggi e gli svantaggi, sulle gioie e sui dolori che si portava addosso in quel momento a causa del nome di suo padre che, una volta morto, aveva iniziato ad avere successo grazie a un libro e stava diventando famoso, cosa a cui non aveva mai pensato. E la tragedia di tutto questo era che non poteva dire quello che sentiva, perché niente di ciò che diceva avrebbe spiegato in quale eredità l'aveva gettata suo padre. Per capire cosa gli stava accadendo, bisognerebbe aver vissuto con lui come aveva vissuto lei, quando non era uno scrittore famoso, iconoclasta e rivoluzionario, come lo considerava ora la gente. Suo padre era suo padre e per sempre sarebbe stato lo stesso padre che aveva conosciuto quando era la sua figlia piccola e mai lo scrittore famoso che la gente di oggi voleva che fosse.

Ma suo padre a pensarci bene aveva sempre avuto una perfetta idea di quello che avrebbe potuto essere, inteso come un perfetto adeguamento fra ciò che cercava e ciò che era in realtà. E solo ora Silvia capiva che quello era la scrittura, divenire un giorno uno scrittore a tempo pieno. Ma quel perfetto adeguamento fra la sua volontà e l’oggetto della sua volontà si compiva ora, ora che era morto.

Che senso aveva? Si chiedeva.

Il senso di un sacrificio in vita che finalmente a un certo punto, quando era già oltre la dimensione del mondo sensibile, trovava completamento. Una beffa? O invece una specie di transustanziazione di un processo che dovesse in qualche modo compiersi oltre i limiti del finito come il perdurare, perché impossibile da dissolvere, di una convinzione terrena?
Era stato quello il senso del suo sacrificare la vita ad un ideale che, lui in vita, mai si era realizzato? E non veniva a depositare ora il frutto di quel sacrificio (di quella transustanziazione) nelle mani di lei totalmente impreparata a quella eredità che il padre le aveva lasciato?

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