Che dire di questa città, di questo stato dove ora vivo?
Ci ho pensato.
Ho messo insieme i
pro e i contro.
Ne amo la calma,
la mancanza di affollamento, la tranquillità.
La gente è più
vera, qualche volta in modo animale anche.
La famiglia è un
legame forte.
E mi ha insegnato
l’ascolto nelle sue foreste, dove ho imparato il silenzio dell’attesa.
Ed è venuto
naturale imparare, camminando per i suoi takas[1],
nei momenti più bui degli ultimi due anni, in cui la follia ha governato.
E sono divenuto
più sacrale, perché mi sono trovato in una città di uomini da me lontani,
isolato. In essa ho sviluppato quelle componenti che insegnano l’ascolto, solo
perché allora le parole erano divenute inutili. E ho capito che dovevo guardare
dentro per vedere oltre l’orizzonte del saeculum in cui vivevo, io inutile
ormai alle parole.
E quell’uomo che
io ero, ora è un altro, che vive in un rifugio in cui giungono le risposte dopo
un lungo silenzio patito.
E vivo in terra
di nessuno, in cui mi preparo, a volare oltre l’orizzonte, in un qualunque giorno
a venire.
Non ho più terra,
lingua, patria, vivo in un dove sempre uguale e senza fondamento.
Ed è più
difficile riconoscersi in un uomo che non è più, che non sono più.
Wer eigentlich
bin ich?
[1] Takas in lituano significa sentiero
[2] Chi sono veramente?
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