Leggendo il De Civitate Dei di Agostino, un libro la cui analisi parte dalla caduta di Roma del 410 d.c. sono rimasto sorpreso dalle tante similarità con il momento di grande caduta in cui ci troviamo ora e quello che descrive Sant’Agostino che dovette essere un momento simile per l’intensità con cui un mondo, quello dell’impero romano, giungeva a fine, chiudendo una civiltà durata secoli, come la nostra attuale.
Sotto proponiamo uno dei tanti passi che ci ha impressionato per somiglianza nel descrivere la natura umana della massa infingarda.
Sotto proponiamo uno dei tanti passi che ci ha impressionato per somiglianza nel descrivere la natura umana della massa infingarda.
In questo passo, al di là del linguaggio ovviamente radicato in riferimenti altri rispetto al linguaggio che potremmo usare oggi per esprimere la stessa intensità di caduta globale, si coglie bene il senso di comodità amata dalla massa timorosa di andare contro i corrotti e i criminali che stanno al potere per paura di perdere tutto ciò che hanno acquisito nel tempo, preferendo vivere, allora come ora, nell’egoismo del proprio stabulum che ribellarsi ed esporsi e denunciare i crimini e le angherie, che potrebbe solo fargli perdere il benessere raggiunto, che è il sunto dell'ignavia della vita loro.
E finiscono così per vivere, dunque. nella paura di dire quello che pensano, nella paura di perdere tutto, nella paura della morte, tutto quanto radicato nel loro egoismo animale di esseri di massa.
Non solum quippe infirmiores, vitam ducentes coniugalem, filios habentes vel habere quaerentes, domos ac familias possidentes, multa temporalia, multa terrena libenter adipiscuntur et moleste amittunt, propter quae non audent offendere homines, quorum sibi vita contaminatissima et consceleratissima displicet; verum etiam hi, qui superiorem vitae gradum tenent nec coniugalibus vinculis irretiti sunt et victu parvo ac tegimento utuntur, plerumque, suae famae ac saluti dum insidias atque impetus malorum timent, ab eorum reprehensione sese abstinent, et quamvis non in tantum eos metuant, ut ad similia perpetranda quibuslibet eorum terroribus atque improbitatibus cedant, ea ipsa tamen, quae cum eis non perpetrant, nolunt plerumque corripere, cum fortasse possint aliquos corripiendo corrigere, ne, si non potuerint, sua salus ac fama in periculum exitiumque perveniat, nec ea consideratione, qua suam famam ac salutem vident esse necessariam utilitati erudiendorum hominum, sed ea potius infirmitate, qua delectat lingua blandiens et humanus dies et reformidatur vulgi iudicium et carnis excruciatio vel peremptio; hoc est, propter quaedam cupiditatis vincula.***
"Or vi sono individui più deboli che menano vita coniugale, hanno figli o desiderano averli, posseggono casa e famiglia. Costoro con piacere conseguono molti beni temporali e terreni e con dolore li perdono, quindi per mantenerli non osano affrontare coloro la cui vita peccaminosa e delittuosa, a loro avviso, è reprensibile. Ma anche quelli che hanno raggiunto un grado più perfetto di vita, non sono intralciati dai legami coniugali e si limitano nel vitto e nel vestito, nel temere le macchinazioni e la violenza dei malvagi contro il proprio buon nome e incolumità, per lo più si astengono dal riprenderli. Certamente non li temono al punto da giungere a compiere simili azioni a causa delle intimidazioni e perversità dei malvagi. Tuttavia spesso non vogliono rimproverare le azioni, che non compiono assieme ai disonesti, sebbene potrebbero col rimprovero correggerne alcuni, perché, se non riuscissero, la loro incolumità e buon nome potrebbero subire un grave danno. Non lo fanno perché considerano il loro buon nome e la vita indispensabili all'educazione degli uomini, ma piuttosto per debolezza perché fanno piacere le parole lusinghiere e la vita serena e si temono il giudizio sfavorevole del volgo, la sofferenza e la morte fisica, cioè a causa di certi legami della passione e non dei doveri della carità."
E finiscono così per vivere, dunque. nella paura di dire quello che pensano, nella paura di perdere tutto, nella paura della morte, tutto quanto radicato nel loro egoismo animale di esseri di massa.
Non solum quippe infirmiores, vitam ducentes coniugalem, filios habentes vel habere quaerentes, domos ac familias possidentes, multa temporalia, multa terrena libenter adipiscuntur et moleste amittunt, propter quae non audent offendere homines, quorum sibi vita contaminatissima et consceleratissima displicet; verum etiam hi, qui superiorem vitae gradum tenent nec coniugalibus vinculis irretiti sunt et victu parvo ac tegimento utuntur, plerumque, suae famae ac saluti dum insidias atque impetus malorum timent, ab eorum reprehensione sese abstinent, et quamvis non in tantum eos metuant, ut ad similia perpetranda quibuslibet eorum terroribus atque improbitatibus cedant, ea ipsa tamen, quae cum eis non perpetrant, nolunt plerumque corripere, cum fortasse possint aliquos corripiendo corrigere, ne, si non potuerint, sua salus ac fama in periculum exitiumque perveniat, nec ea consideratione, qua suam famam ac salutem vident esse necessariam utilitati erudiendorum hominum, sed ea potius infirmitate, qua delectat lingua blandiens et humanus dies et reformidatur vulgi iudicium et carnis excruciatio vel peremptio; hoc est, propter quaedam cupiditatis vincula.***
"Or vi sono individui più deboli che menano vita coniugale, hanno figli o desiderano averli, posseggono casa e famiglia. Costoro con piacere conseguono molti beni temporali e terreni e con dolore li perdono, quindi per mantenerli non osano affrontare coloro la cui vita peccaminosa e delittuosa, a loro avviso, è reprensibile. Ma anche quelli che hanno raggiunto un grado più perfetto di vita, non sono intralciati dai legami coniugali e si limitano nel vitto e nel vestito, nel temere le macchinazioni e la violenza dei malvagi contro il proprio buon nome e incolumità, per lo più si astengono dal riprenderli. Certamente non li temono al punto da giungere a compiere simili azioni a causa delle intimidazioni e perversità dei malvagi. Tuttavia spesso non vogliono rimproverare le azioni, che non compiono assieme ai disonesti, sebbene potrebbero col rimprovero correggerne alcuni, perché, se non riuscissero, la loro incolumità e buon nome potrebbero subire un grave danno. Non lo fanno perché considerano il loro buon nome e la vita indispensabili all'educazione degli uomini, ma piuttosto per debolezza perché fanno piacere le parole lusinghiere e la vita serena e si temono il giudizio sfavorevole del volgo, la sofferenza e la morte fisica, cioè a causa di certi legami della passione e non dei doveri della carità."
***De Civitate Dei I, 9-2
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