Sunday 19 March 2023

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio







Mi è capitato di ascoltare un video di Cacciari, "filosofo" italiano sulla necessità della poesia.

Il video è di cinque anni fa.
L'intervento sembra avvenuto a un festival della poesia. Un intervemto in verità verboso, prolisso, una massa di parole congestionate in un discorso dove si parla di una poesia secondo una visione probabilmente condizionata dall'idealismo.

Ma nemmeno mi interessa approfondire il tema, in tutta onestà. Tanto mi pare fuori strada l'intervento di Cacciari.
La sua tesi è che la poesia nasce dal DEVO.

Niente di più falso, chi è un vero poeta sa che la poesia si impone di per sé e si impone per manifestare la parte più umana e bella in quelle persone che non hanno ancora distrutto e soffocato quella parte. La poesia, che non è solo quella scritta, quella messa in parole, ma anche e forse sopratutto il profondo sentimento che prepotentemente e irrevocabilmente necessita di manifestarsi. Di trovare la manifestazione.
Il poeta quello che scrive, a differenza di chi sente la poesia e si limita al sentire interiore della visione poetica, è colui che cerca la mediazione fra ciò che prova, il sentire, e la lingua a sua disposizione.
La poesia nasce dalle cose e dal mondo che ci circonda e parla solo a chi ha le componenti dell'ascolto adatte a percepire quelle cose e quel mondo circostante.
Il Leopardi credo ne sia l'esempio perfetto, che illustra come talora queste componenti equivalgano quasi a portare le stimmate della poesia, rispetto ai tanti indifferenti, che dormono in riferimento al sentire (poetico). Il poeta spesso vive una realtà aumentata, per dirla in modo più attenuato in riferimento al Leopardi il cui alto sentire lo porta di per se stesso alla disperazione. E la poesia è l'unico mezzo per comunicare quel dolore.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro 

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri, 

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! 
[1]

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[1] La sera del dì di festa, 11-20




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