Wednesday 31 October 2018

La Bianchina





Silvano ricordava bene lo stile di vita di suo nonno, e quello stile di vita lo aveva sempre impressionato fin da piccolo. E quando il partito gli aveva ventilato quella possibilità, si era ricordato di suo nonno e si era detto, “Perché no?”.
Il suo sogno era comprare il 1100. Gli piaceva molto il 1100/103 ma era troppo caro per cui optò per la Bianchina.
Silvano era orgoglioso di quella macchina, acquistata a suon di debiti, di cambiali, ma il commento di Sabatina fu, al solito, dissacrante.

- Ma che hai comprato? Una scatoletta di sardine? Ma come fai a entrare lì dentro?

Con Sabatina si era creata una distanza. Silvano capiva che Sabatina era sempre meno la donna che faceva per lui. Una donna che non sapeva presentarsi. Che non poteva adeguatamente rappresentarlo negli incontri, nelle cene, e nelle celebrazioni a cui aveva cominciato a prendere parte per via del lavoro. Era una donna semplice. Spesso aveva uscite fuori luogo, che potevano anche metterlo in imbarazzo. Ora forse capiva un po’ perché Ida era contraria al matrimonio. Forse Ida lo conosceva meglio di quello che lui pensasse.
Alla fine Silvano si sentiva quasi avesse doppia personalità. Brillante, scherzoso, seduttore fuori casa. Mogio, senza parole, irritato a casa. Infatti evitava di stare a casa.
Silvano forse non era un uomo particolarmente bello, ma certamente piaceva alle donne. Soprattutto piaceva quel piglio autoritario che si era costruito nel tempo facendo politica. Aveva in qualche modo acquistato un tono stalinista (come gli rimproveravano gli avversari, soprattutto i comunisti – strano a dirsi) che impressionava le donne, e che solo Sabatina sapeva mettere in crisi con quella sua capacità dissacratoria che le era connaturata.

Purtroppo Silvano era facilmente soggetto a perdere la testa per le donne. Fin dai tempi di Bruna a Montorio Veronese aveva avvertito con quale facilità potesse divenire preda di quella sensazione. In questo davvero assomiglia a nonno Giovanni, che non ne risparmiava una. Per tutta la vita ci aveva provato con tutte fin anche in tarda età, quando il decoro magari gli avrebbe imposto di controllarsi. Ma nonno Giovanni aveva una tale simpatia ed educazione naturale che anche nella più audace delle avanche provocava il riso nella predestinata di turno a subire il suo impeto di cavalleria eccessiva.
Comunque Sabatina cominciò a diventar gelosa. Troppe cose tutte insieme. E guarda caso tutte erano maturate all’improvviso mentre lei era al mare.
Se Sabatina aveva una capacità era proprio quella di avere una vista da, si direbbe oggi, scanner.
Silvano era per lei un libro aperto. Il suo cambiamento era troppo radicale. Doveva ben esserci qualcosa nel suo cambiamento, in profondità.
Nel mentre che rimuginava su queste cose ve ne furono molte altre che avvennero e che la tennero occupata.

La più grande fu il trasloco da Villambosco a casa di Magazzini, il nome del proprietario che aveva loro affittato la casa.
Siccome questo era il più grosso obiettivo di Sabatina un poco la calmò. Il fatto che fra tutte le novità vi fosse finalmente l’abbandonare la casa di Ida la riempiva di una gioia straordinaria che le faceva dimenticare i sospetti su Silvano.




La morte di nonno Giovanni




Dopo che era ritornata dal mare aveva notato che Silvano era cambiato. Intanto aveva preso a dire che voleva comprare la macchina. La vespa era vecchia, e in inverno andare da Montelupo a Fucecchio faceva troppo freddo, magari in estate poteva andar bene ma in inverno proprio no. Ma anche in estate - insisteva - non era comoda, dopo anni di vespa non ne poteva più.
Aveva cominciato a dire che voleva lasciare la camera del lavoro di Fucecchio e andare a lavorare alla federazione di Firenze. Diceva che dopo il congresso di Venezia il partito si era staccato dai comunisti e a Firenze avevano bisogno di gente nuova.
Insomma pareva che in quindici giorni, il mondo fosse cambiato.
La notizia buona fu che aveva trovato una casa a Montelupo, località Graziani. E sarebbero andati ad abitare lì.

- Ma dove hai trovato tutti questi soldi? – chiese Sabatina.
- Il partito mi farà prendere un mutuo in banca a tasso agevolato. Non voglio fare la fine del povero Tognotti.
- Fare debiti? Ma che sei ciucco! Mio zio Giacco diceva sempre che non bisogna fare il passo più lungo della gamba.

Quel pomeriggio era infatti ritornato da Lucca, dal funerale di un suo compagno di lavoro e di partito, Giampaolo Tognotti. Lo aveva conosciuto a Lucca anni prima, durante una riunione della Coldiretti. Tognotti si occupava del settore oleario. A Lucca vi era una importante ditta, la Bertolli che era divenuta una ditta a livello internazionale innovando nel settore della distribuzione, non più vendendo l’olio in lattine ma in bottiglie di vetro trasparente. Tognotti aveva promosso una serie di incontri con i produttori di olive, a cui Silvano era andato e si erano conosciuti. Essendo Lucchese Tognotti era molto attento a non spendere, poco si concedeva alla vita. Sempre attento a risparmiare perfino sul caffè al bar. Silvano spesso lo prendeva in giro per questo sua eccessiva oculatezza che talora sconfinava in tirchieria. Di sicuro era riuscito ad accumulare dei risparmi, che però andarono ben presto spesi dopo che ebbe il primo infarto. Fra medici, medicine e cure, ben poco gli rimase. Dopo il secondo infarto, da cui mai più si riprese, i compagni di partito dovettero organizzare una colletta per aiutare lui e la famiglia.

La frase di Sabatina lo aveva disturbato. Capiva di esporsi, ma non voleva certo vivere come Ida e Beppe, che magari qualche soldo da parte ce lo avevano, ma che vita facevano? Da bestie.
No, lui era come nonno Giovanni, che fino all’ ultimo giorno si era goduto la vita.

- Silvano – gli diceva – io voglio sentirmi vecchio solo cinque minuti prima di morire.

E così probabilmente era stato.
Il giorno che morì, morì a letto, dopo pranzo. Una domenica pomeriggio. All’età di novantadueanni, in perfetto stato di salute.

- Mi butto un po’ sul letto – disse dopo il pranzo – mi sento un un po' stracco.
- Non fumate il sigaro oggi nonno?
- No...mi gira la testa.
- Il caffè lo volete?
- Ora no. Grazie. Magari dopo, quando mi alzo.

Alle sei non vedendolo ritornare, Silvano andò in camera a vedere che faceva.

- O nonno, che fate non vi alzate? ' disse una volta aperta la porta della camera - Ma che buio c’è in questa camera. Aspettate che apro gli scurini.

Quando entrò la luce in camera. Vide il nonno con le braccia conserte e un bel sorriso sulla faccia. E pareva sorridere a lui, a Silvano. O forse no, forse a qualcosa ancora più lontano di Silvano. Qualcosa che solo il nonno aveva visto.


Tuesday 30 October 2018

La carne che non muore (II)




Antonio andò con il pensiero all’ ultima lettera ricevuta dalla sorella, in cui gli riferiva di avere bisogno del suo aiuto. La lettera assomigliava ad un grido di soccorso senza menzionarne le ragioni. Una lettera misteriosa per certi versi. Antonio sarebbe voluto correre subito in soccorso se i suoi impegni militari non lo avessero trattenuto lontano con la compagnia dei bersaglieri impegnati a rastrellare il massiccio dell’Aspromonte.
Era poi dovuto rientrare a Torino con il plotone per chiedere una licenza speciale.
Eleonora si era da subito manifestata contraria ad accompagnarlo. Aveva da subito sospettato che fosse gelosa. Ed ora ne aveva la conferma.

- Ti vedo preoccupato Antonio?
- Penso alla lettera di mia sorella. E’ passato più di un mese. Non ho più avuto notizie da allora. Non vorrei che fosse successo qualcosa.
- Sta i tranquillo amore mio. Tutto sarà bene. In fondo anche io desidero conoscere questa tua sorella che è capace di impensierire il mio amore per te.
- Sai bene quanto diverse siano le nostre vite. Siamo sati divisi fin da piccoli, da quando i genitori si separarono. Io con mio padre e mia sorella con la madre. Eppure il nostro amore, di fratello e sorella si è rafforzato invece di diminuire. Non è strano questo?

Eleonora evitò di rispondere. Avrebbe voluto dire “Sì, è strano! Non è un normale amore fra un fratello e sorella. E’ qualcosa di più. Qualcosa che mi preoccupa.”
Ma non lo disse e si limitò ad abbassare la testa, appoggiandola sulla sua spalla e guardava fuori la città che si allontanava verso l’aperta campagna.

- Io non conoscevo mia sorella. Avevamo sempre vissuti separati. Lei a Livorno ed io a Torino. Mio padre mi aveva presto avviato alla vita dell’ Accademia Militare. Fu un giorno che uscendo dall’Accademia insieme a dei commilitoni, una graziosa ragazza mi si fece incontro. Bionda, occhi azzurri, alta e slanciata da parermi una visione del cielo. I miei compagni d’Accademia erano rimasti paralizzati dall’ apparizione. Questo essere divino mi viene incontro, mi abbraccia e mi bacia sulle guance. “Fratello mio!” mormorando.

Eleonora lo fissò. Delle lacrime scendevano dal volto di suo marito, un soldato indurito dalla disciplina e dalle atrocità dell’Aspromonte. Quasi non ci credeva. E sentì aumentare la gelosia, che tuttavia cercò ancora di trattenere, perché una moglie non può e non deve essere gelosa di una sorella.

IMPARA A SCRIVERE E IMPARA L' ITALIANO (CORSO DI SCRITTURA CREATIVA)




- Vuoi migliorare l'italiano e ti piace scrivere?
- Vuoi parlare, dialogare creare e pensare in italiano?
- Sai che la lingua scritta migliora quella parlata e non viceversa?

Tecniche di scrittura creativa per migliorare il tuo italiano!

Contatti:

Monday 29 October 2018

Il doppio stato e la doppia fedeltà







A distanza di anni, Silvano odiava certe cose. Quando la lucidità glielo permetteva ripensava in modo quasi violento indietro alla sua vita passata. La rabbia, la violenza che in lui faceva fremere il suo essere, gli ridava forza e lucidità.
Silvano aveva compreso bene la infelicità della sua esistenza. Un’infelicità costante che per tutta la vita lo aveva perseguitato, senza dargli pace.
“Era meglio che partorisse un gatto nero mia madre, invece di me”, era la sua frase ogni volta che pensava a quanto infelice fosse stata la sua vita.
E comunque quei pensieri gli ridavano forza, gli riattivavano la visione che diversamente si sarebbe spenta.
Per reagire alla demolizione continua della malattia, per mettere in atto un tentativo di arrestare quella rottamazione costante dei pezzi che componevano il suo io e il suo corpo (quel che ancora rimaneva di un qualcosa che potesse ancora chiamarsi “corpo”) ripensò alla sua vita negli anni Cinquanta, agli anni dedl boom economico, a come la gente vedeva crescere i loro soldi, il benessere, e a come la speranza non conoscesse limiti in quegli anni.
In quegli anni erano nati Luigi e poi Fabrizio. Cinque anni di differenza fra l’uno e l’altro, ed erano figli di quell’ ideale ora tramontato. Figli della speranza di una vita felice. Di una vita dettata da un reddito improvviso, che superava le aspettative.
Mettere al mondo un figlio allora pensava che fosse un atto di responsabilità per il figlio e per il mondo. Ma ora no. Ora pensava che è solo egoismo. Che è un processo un processo naturale di cui si potrebbe fare anche a meno. Che ti danno alla fine i figli, in giorni come questi? Quando sei solo tu e il tuo male a tenerti in vita. E’ solo una delle tante narrazioni del mondo quella dei figli. Lui e Sabatina avevano educato i figli secondo la loro natura. Il credo nella famiglia, il rispetto dell’uno e dell’altro. Il dare sempre, anche se non ricevi. Il volersi bene, in quanto fratelli.
Ma in realtà erano divenuti ora Luigi e Fabrizio? Due estranei. E Silvano ne soffriva. Vedere due fratelli che erano così diversi e lontani l’uno dall’altro era un dolore che non sapeva esprimere e perciò lo viveva in silenzio. Non aveva un’alternativa. Doveva e poteva viverlo solo in silenzio.
Ma in fondo anche lui con sua sorella Diana e con suo fratello Piero, come erano diventati? Sua sorella non si parlava più con suo fratello a causa della moglie di lui e a causa di Ida che aveva sempre fatto differenze fra Silavno e Piero e fra Piero e Diana.
Le narrative servono solo a descrivere un ruolo, e se i ruoli cessano, cessano le narrative. Si assume un altro ruolo e si aderisce ad altre narrative. Un fratello che si sposa, un fratello che cambia città, un fratello che fa figli vive secondo narrative diverse da quelle di quando si dormiva nella stessa camera e si cenava allo stesso tavolo.
Silvano soffriva, avrebbe voluto che i suoi figli fossero sempre fratelli, fossero i Luigi e i Fabrizio di quando erano piccolini, ora quasi non si capivano più.
Il vincolo di sangue? Una narrativa bugiarda, che non esiste più, in un mondo dove gli eroi non esistono più. Dove i valori, gli ideali si sono estinti.

Un grande vantaggio della vecchiaia è di diventare scettici; che cominci a pensare (quando la mente ancora funziona) perché hai tanto tempo per osservare le cose di lontano. E questo è un grande vantaggio, che non hai quando sei giovane. Da giovane corri e pensi solo a correre. Hai una sete dentro che ti fa solo correre.
Ma perché quei pensieri. Perché quella rabbia, e amarezza, contro il passato?
Era stato a causa di Sabatina, ormai l’ultimo interlocutore spontaneo che gli era rimasto.
Sabatina passava interi pomeriggi alla TV, dormendo. Ogni tanto si svegliava, diceva qualcosa senza senso e si riaddormentava.

- Ma perché guardi questo film? – le chiese Silvano, che si era con difficoltà alzato dalla poltrona, barcollando avve raggiunto Sabatina e l’aveva scossa.

Sabatina sussultò. Emise un suono strano e nel suo toscano crudo, escalmò:

- Che c’è? Che vuoi?
- Posso cambiare?
- Non ti piace?
- No.
- Ma come? Non ti piace Alberto Sordi?
- No, lo odio.
- Io lo voglio vedere.

Silvano, si stizzì. Borbottò qualcosa incomprensibile e si sedé. Non riusciva a tener testa a Sabatina ora, si sentiva debole. Non come quando era giovane. Allora era lei, Sabatina, che si piegava a lui.
Negli anni Cinquanta aveva visto molti film con Sordi. Per lui Sordi era colpevole di aver stereotipizzato gli italiani. Lo riteneva reo di aver impregnato la cultura del dopoguerra di un’ immagine dell’ italiano vigliacco, bugiardo, democristiano, imbroglione, debole, paraculo, lavativo, bonaccione, servo del volemose bbene semo itagliani…che era nata dalla disfatta del ’43. Quel senso di cedimento generale e di necessità di salvare la propria pelle costi quel costi e di individualismo estremo derivati dalla disfatta dello Stato l’aveva trasferito sugli schermi e ne aveva fatta un’icona della italianità.
Aveva sdoganto e legittimato l’immagine dell’italiano individualista e debole nato dall’egoismo dell’ 8 settembre, che soffriva del desiderio inappagato di ritornare a casa, alla propria Itaca, e per questo pronto a sacrificare tutto il resto purché a vantaggio del proprio tornaconto.
Quel film che Sabatina pretendeva di guardare ma neppure ascoltava, immersa nel suo sonno di morte anticipata che ti prepara a distaccarti lentamente dal mondo, l’ aveva fatto scivolare con i pensieri a quegli anni dell’ Italia che ruggiva.
Ora di che ruggiva l’ Italia? Ora gli parevano tutti figli di Alberto Sordi: vigliacchi, bugiardi, imbroglioni, deboli, paraculi, lavativi, voltagabbana, comici diventati politici e politici diventati comici…Chi aveva provato a uscire da quello schema era sempre stato fatto fuori: Mattei, Moro, Craxi, Falcone, Borsellino...
Non erano molti in fondo gli italiani con le palle dal Dopoguerra a oggi. Li contavi sulle dita di una sola mano.
Ricordava che pure in quegli anni, negli anni del miracolo economico, serpeggiava il malessere. Il malessere di una prosperità troppo improvvisa, che aveva troncato il dolore del nostos, che aveva partorito immigrazioni folli dal sud al nord, cambiamenti alle strutture portanti della vita di milioni di persone, che aveva provocato una incontenibile corsa ad acquistare firmando cambiali.
Ma tutto questo era sembrato secondario davanti alla ricchezza inattesa di un paese secolarmente povero e depredato in modo genetico dal nord, dopo l’Unificazione d’Italia, e dagli stati esteri da cui l’Italia aveva da sempre dipeso e continuava a dipendere. Quella italiana era una democrazia secondo la formula del doppio Stato con una doppia fedeltà: fedeltà alla Repubblica e fedeltà alle forze che estere che hanno da sempre controllato la Repubblica.
E perciò quel malessere non era mai scomparso. Si era trasformato, modificato, mascherato, evoluto ma mai era rimasto assente.
E le loro malattie avevano causa in quello stesso male che correva ininterrotto nelle contraddizioni del doppio Stato, dal boom economico ai presenti giorni. Erano come il risultato di una risonanza evolutiva che li aveva accompagnati fino a modificare le loro cellule, e il loro comportamento genetico.

Ma Silvano non mollava. Nonostante l’età e le malattie. Non era Sabatina, lui. Aveva difficoltà a capire ma voleva capire. Voleva almeno morire con la certezza di aver capito. E forse aveva capito. Per questo pensava, ascoltava dentro di sé, per quanto le medicine e i mali congiurassero contro la sua volontà.

Sunday 28 October 2018

La carne che non muore (I)




Livorno, una città della Toscana, che ad arrivarci avevi il dubbio di essere in Toscana. Livorno, Marina di Pisa, Tirrenia, Calambrone potevano far dubitare di aver forse varcato una frontiera venendo da Firenze.
I due sposi, eccentrici si poteva definirli dall’abbigliamento, scesi dal treno poggiarono le valigie sul binario guardandosi attorno, in attesa di un facchino.
E forse il loro stupore aveva quella radice, di essere pervenuti in un mondo diverso da quello da cui erano partiti.
Lui indossava un paltò a doppio petto grigio fumo di Londra. Il bavero era sormontato da una pelliccia nera. Nell’ampia tasca sinistra teneva arrotolato un quotidiano. Dal bavero si intravedeva il colletto rigidamente inamidato di una camicia bianca a cui era annodata una cravatta grigia a pois bianchi. Sotto il cappello a falde ampie spuntava un faccia piena e rotonda, il cui mento e labbra erano ricoperti da una barba nera a forma di pizzetto. Gli occhi erano neri e spiritati. Si guardavano attorno quasi fossero persi.
Lei vestiva un lungo cappotto nero e un cappellone anch’esso nero, sotto il quale spuntavano dei riccioli oro.
Aveva sopracciglia fini ma fortemente marcate. Lo sguardo era intenso e le pupille di lontano parevano di un nero acceso. Il naso leggermente lungo si appuntiva appena piegando verso il basso. La bocca piccola e sigillata in una smorfia di inavvertibile insoddisfazione.
Se lui dimostrava almeno quaranta, quarantacinque anni, lei non sembrava averne più di trentacinque.
Gli altri viaggiatori superandoli li osservavano finendo talora per urtarsi nel passare davanti perché volgevano verso di loro tutta la propria attenzione.
Finalmente arrivò un facchino che si prese cura dei loro bagagli.

- Ci conduca all’uscita – disse l’uomo allungandogli una moneta -abbiamo fretta. Ci sono fiaccheri all’ uscita?
- Sissignore, ce ne sono almeno tre o quattro sempre in attesa.
- Hai fretta di raggiungere tua sorella? – chiese la moglie.
- Perché me lo chiedi?
- Perché ti vedo in pena.
- Mi devi capire, sono anni che non vedo mia sorella.
- In certi momenti mi sento quasi gelosa.
- Oddio! Che parolona...non puoi sentirti gelosa di una sorella.
- Lo sono in verità.
- Ecco signori, scelgano loro il fiacchere che più vi aggrada – li interruppe il facchino. 

Il fiaccheraio sistemò i bagagli. Aiutò a salire la signora e domandò la direzione al marito.

- Villa Letizia, all’ Ardenza. Corra per favore la pagherò il doppio.

Eleonora, si accomodò sbottonandosi il cappotto, Antonio tirò fuori il giornale arrotolato dalla tasca e pretese di leggerlo.

- Ti disturba che io sia gelosa di tua sorella?

Antonio guardava fuori. Aspettava solo che il fiacchere prendesse l’abbrivio. Rispose solo quando oltrepassò i cancelli della stazione. 

- Un po’ sì. Ma non mi sembra il caso di crearne una discussione. Sono sicuro che anche tu quando la vedrai capirai l’assurdità della tua gelosia.

Antonio la cinse alla vita, ma Eleonora gli resisté debolmente. Il pensiero di incontrare la sorella di Antonia le causava una sorta irrigidimento mentale. Un sentimento di una spiacevole scoperta la pressava. Ed aveva la forma di una verità che era meglio tenere ancora distante.

Saturday 27 October 2018

A Marina di Pisa dalla famiglia Billeri





La famiglia Billeri era composta da moglie e marito, la mamma della moglie e un cane.
Erano pisani e il loro accento era pesante e strascicato, che talora disturbava le orecchie sentirlo.
Comunque erano gentili.

- Ma quanti sarete allora?
- Io, i due bambini e mia suocera – e qui Sabatina guardò di sguincio Silvano.

Silvano le fece due occhiacci, come per dire “Non ricominciamo!”.
Sabatina non rispose alla provocazione. Fece finta di nulla.

- Ma lei non verrà mai? – chiese la signora Billeri a Silvano.
- Signora, il mio non è un lavoro normale. Lavoro in politica. Si lavora anche il sabato e la domenica.
- Mamma mia! – sospirò la signora Billeri.
- Allora siamo d'accordo per la seconda quindicina di giugno?
- Va bene. La caparra ce l’avete già versata. Quando arriverete ci verserete il resto.

La casa dei Billeri era bella. La camera che avevano dato a Sabatina e ai bambini guardava sul mare. Erano stanze spaziose e luminose. Non le piaceva tanto che ci fosse un cane, ma Luigi e Fabrizio ne erano contentissimi. A Villambosco ne avevano uno, Lampino, e trovarne un altro al mare, a Marina di Pisa, li aveva resi felicissimi.
I bambini, soprattutto Luigi, erano attaccati a Lampino perché Lampino una volta aveva salvato la vita a Luigi.
Luigi un pomeriggio d’estate aveva preso per il vigneto a costone che degradava a precipizio verso un borro a valle, che veniva chiamato l’ Africa per le temperature torride che vi regnavano in quella parte dell’anno. Luigi era andato a cercare nonno Beppe che stava lavorando in quelle prode. A un certo punto scivolò a causa della natura friabile del terreno e si procurò una distorsione alla caviglia destra. Tentò più volte di alzarsi e camminare senza successo. Cominciò a frignare e a lamentarsi e a chiamare “Nonno!Nonno!”. Ma nessuno rispondeva. Lampino per un po’ lo guardò. Poi gli abbaiò e scappò via di corsa verso l’alto del colle. Luigi gli urlò “Lampo! Lampo! Rimani qui! Non lasciarmi solo!”.
Lampino non lo ascoltò e imperterrito corse a perdifiato per la viottola che menava a Villambosco.
Arrivato, si incuneò per le stanze della casa in cerca di Sabatina. Quando la trovò prese ad abbaiarle davanti alle gambe. Abbaiava e faceva le viste di correre indietro verso la viottola che si inerpicava su per il colle e portava all’Africa.
“Che hai Lampo? Che ti ha dato di barta il cervello per il caldo” diceva Sabatina.
Ma il cane non aveva pace. Abbaia, e poi rinculava verso la via. Poi ritornava da Sabatina e poi di nuovo prendeva l’abbrivio verso il sentiero.
Abbaiava, abbaiava e ripeteva le stesse mosse, senza pace.
Sabatina alle fine fu presa da un sospetto. Lampo era sempre con Luigi. Come mai Luigi non era con lui? Le balenò una paura. “Vai Lampo. Ti vengo dietro”.

- Ora me la troverò anche al mare quell’impiastro di Ida.

Furono le prime parole di Sabatina appena uscirono fuori e si incamminarono per la stazione attraverso il refrigerio della pineta.

- Ma come avresti fatto da sola, con due bambini?
- Sarei stata meglio che con Ida.
- Ma così metterà dei soldi anche lei. Io da solo non ce l’avrei fatta. Non ho tutti questi soldi. A chi li chiedevo?
- E tu non verrai mai?
- Cercherò di venire un fine settimana.
- Bella roba che sei! I tuoi figli non ti vedranno mai. Non ci sei mai con loro.
- Che devo fare? Alla Camera del Lavoro, ci sono da organizzare tante cose. Poi ora lavoro anche per il partito. Devo andare a fare dei comizi anche.
- Voglio vedere che ti darà il partito! E Beppe come farà da solo?
- Ida ha chiamato il fratello di Beppe, Livio. Verrà lui a dargli una mano.

Sabatina tacque. Guardò avanti. Prese per mano i bambini. Erano la sua vita. L’orizzonte intero della sua esistenza. Tutto ciò che la vita le aveva dato di bello.






Lo scontro con Ida




- Io t’ammazzo! – gli aveva urlato Ida – Io che ti ho cacato, ti ho messo al mondo, io t’ammazzo!

Piantò in faccia a Silvano due occhiacci spiritati, come raramente le aveva visto. Sembravano di brace infocata.

- Ora anche il mare! - continuò – E che siamo signori? Al mare ci vanno i signori, non noi contadini.
- Sentite mamma, io vi do tutti i soldi che guadagno, per campare. Piero invece non vi dà nulla. E a voi vi sta bene. Anzi lo trattate meglio di me. Ma che vi pare giusto fare queste differenze fra fratelli?
- Ma lui è un giovanotto.
- E che vuol dire?

La madre non rispose. Teneva i pugni appoggiati sui fianchi e non abbassava lo sguardo.

- Vuol dire che voi fate le differenze. Ecco che vuol dire – proseguì Silvano.
- Figliettino! Dire a me queste cose che mi son levata il pane di bocca per te e ora per quei due mangiapani!
- Siete cattiva mamma. Anzi sapete che vi dico? Mare o non mare, io e Sabatina ce ne andiamo.
- Che vuol dire ce ne andiamo?
- Che andiamo a vivere per conto nostro. Qui non è più possibile.

Ida afferrò uno stidione dal canto del fuoco (stavano parlando vicino al grande camino, dove Ida la mattina cominciava a cucinare nel pentolone) e glielo misurò in faccia a Silvano.

- Non ci provate mamma, che un cazzotto non ve lo leva nessuno.
- Sei un disgraziato. Prima hai lasciato solo tuo padre a lavorare i campi. Ora ci vuoi lasciare soli, noi due poveri vecchi. Io vi ho preso in questa casa, vi ho campati, ho campato i vostri figlioli. E ora...e ora ve ne volete andare.

Silvano abbassò gli occhi. Gli avevano fatto male quelle parole. Aveva comunque un senso di colpa verso il padre. E ora anche la madre ci si metteva.

- Mamma, non siate ingiusta. Abbiamo il diritto alla nostra vita. E poi anche voi dovete essere sincera, siete una tiranna in questa casa. Fate e disfate e nessuno vi può dire nulla. Non accettate altri pareri e punti di vista.
- In questo casa comando io, e io decido. Che vi piaccia o non vi piaccia. Qui si fa come dico io. E se volete andarvene, fate un po’ come vi pare. Io un vi trattengo.
- Sentite mamma...al mare ci penso io. Voi non dovrete tirare fuori una lira. E poi un’altra cosa...io non potrò esserci al mare, dovrò lavorare a giugno. Perché non ci andate voi al posto mio a dare una mano a Sabatina? Da sola con due figlioli come farà? In fondo...pensateci bene...voi il mare in tutta la vostra vita non l’avete mai visto.


Wednesday 24 October 2018

Marina di Pisa






«O Marina di Pisa, quando folgora il solleone!...»
(Gabriele D’Annunzio)


Continuò a pensare a quegli anni. A quando dalla Striscia si erano trasferiti a Montelupo, e lui aveva cominciato a lavorare alla camera del lavoro di Fucecchio.
Silvano partiva in Lambretta la mattina verso le otto e tornava per lo più dopo mezzanotte. Quasi ogni sera aveva riunioni con i contadini, e spesso non erano a Fucecchio, ma a Pontedera, Ponsacco, Monsummano…se era fortunato a Empoli, o Castelfiorentino.
Sabatina in quella casa, sola, soffriva sempre di più. La mattina lavava e vestiva i bambini, li aiutava a fare colazione, e già dall’ inizio del giorno doveva sopportare la cattiveria di Ida.

- C’è da andare nel campo a aiutare Beppe. Non perdere troppo tempo con quei due mangiapane a tradimento.
- Ma dovrò fargli fare colazione! E poi come potete chiamarli “mangiapane a tradimento”? Sono i Vostri nipoti...
- Io, alla loro età mi lasciavano a casa insieme al cane, e andavano tutti a lavorare.
- Comunque stamattina li devo portare dal dottor Ciardi. Hanno la tosse. Da Beppe ci andate Voi.
- Ci mancava anche il Ciardi! Ma quanti ci costano codesti due mangiapani!
- Ma anche io, lavoro in questa casa. Qualcosa dovrà pur contare? Anche io vado nel campo a lavorare con Beppe. Non conta nulla? E Silvano? Tutto quello che guadagna lo dà a Voi. Anche questo non conta?
- Ma sai quanto, a mantenervi tutti quanti voi, mi ci vuole? Quanto mi costate, lo sai?
- Eh, sì...ma quando andate a Castelfiorentino dalla Vostra figliola e le portate i soldi perché suo marito è rimasto senza lavoro, allora quello non conta?

Ida aveva in mano una padella che aveva appena lavata. Andò sul muso di Sabatina e gliela misurò.

- Brava! Picchiatemi anche!

Ida alzò in alto la padella come se volesse davvero colpire Sabatina.
Luigi e Fabrizio a vedere quella scena cominciarono a piangere e a gridare “Nonna, no! Nonna, no!”
Ida si fermò. Cominciò a bestemmiare e andò fuori a dar da mangiare alle galline.

- E chi glielo dice a quella?

Silvano tacque.

- Silvano, non possiamo continuare ad abitare qui. Io con tua madre non ci voglio più stare. Dobbiamo andarcene, fare una nostra famiglia. E poi come possiamo dormire in una camera che quando piove o nevica dobbiamo dormire con l’ ombrello? perché il tetto è pieno di buchi proprio sopra la nostra testa. E tua madre non vuole spendere per ripararlo...per forza i bambini si ammalano.

Silvano la ascoltò. Non replicò nulla. Si limitò solamente a guardarla. Poi come se non avesse sentito, rispose:

- Questa non ci voleva. Ci vorranno un bel po’ di soldi. Basteranno quindici giorni?
- Il dottore ha detto di sì. Hanno bisogno di sole. Mancano di vitamina D. Devono respirare acqua salmastra. Troppo umido qui a Villambosco. Siamo sotto poggio, non ci dà mai il sole su questa casa.
- Ma dove potremmo portarli?
- A Marina di Pisa. Non è lontano. Vicino Pisa. C’è una bella spiaggia, una pineta grande. E un trenino che da Pisa corre per tutta la pineta fino a Tirrenia e poi Livorno.
- Allora si potrebbe andarci in treno, da Montelupo fino a Pisa e poi prendere il treno per Marina di Pisa.
- Sì.
- Ma che mese? Sarebbe meglio settembre. Costa meno.
- No, hanno bisogno di sole. Io ce li porterei la seconda quindicina di giugno.
- Bisognerà andare una domenica a fissare una casa.
- Sì.
- E con Ida come si fa?
- Non lo so. Ci devo pensare.

Ida era una donna arcigna, con la quale era impossibile ogni genere di dialogo. Nata nel 1899 da una famiglia di contadini e boscaioli, aveva avuto tre sorelle e un fratello. Due erano morte a causa della febbre spagnola insieme al padre. La madre sarebbe morta poco dopo per (come si diceva allora) “un malaccio”.
La terza sorella invece sarebbe scomparsa qualche anno prima che Ida morisse (1993).
Il fratello trovò la sua fine al fronte, durante la Prima Guerra Mondiale. Al fratello Ida era particolarmente affezionata. Tanto è vero che quando Fabrizio nacque si impuntò nel volerlo chiamare Adon, come il fratello. Naturalmente ne originò una guerra con Sabatina, che non voleva quel nome.
La guerra fu risolta con un compromesso: Fabrizio sarebbe stato il primo nome, Adon il secondo. Fabrizio Adon, fu così chiamto il bambino.
Venendo da una famiglia di contadini e boscaioli, la sua vita fin da piccola fu divisa tra la casa e il bosco, dove andava a badare le pecore e a portare da mangiare ai carbonai. Imparò presto a andare a cavallo, senza sella, di modo che le fosse più agevole seguire le pecore e spostarsi da casa al bosco per vettovagliare i carbonai e i boscaioli.
Non frequentò mai le scuole e nonostante tutto imparò a leggere e scrivere. Era certamente una donna intelligente, ma indurita assai dalla vita selvatica che conduceva. Fin da piccola aveva infatti passato più tempo insieme agli animali che agli esseri umani.

- Nel bosco c’è una ragazza che ha due sedi sodi come il marmo, che ti ci potresti sedere sopra. Ma chi è? - fu il commento di Giuseppe, parlando con suo padre Giovanni, un giorno che si era addentrato nel fitto della boscaglia per far legna.
- E’ la figliola del Frediani, di Casa al Rosso.

Fu quella la prima volta che Giuseppe incontrò Ida, e da cui poi non si sarebbe più separato fino alla sua morte, avvenuta nel 1973 a causa di un ictus.
Nessuna meraviglia dunque che da un’infanzia e una gioventù simili fosse degenerata una forma di vita insensibile e gretta, che badava unicamente alla conservazione del proprio interesse personale e accettava solamente il proprio punto di vista.
La stessa durezza che aveva verso gli altri l’aveva verso se stessa.
Se le capitava di essere malata di gola (abbastanza frequente) o avere un’altra malattia (raramente) si chiudeva per giorni - dipendendo dalla gravità, anche settimane – in camera al buio, senza mai uscirne, e cibandosi di solo pane ammorbito nell’ acqua fredda. E solo Beppe (Giuseppe), era ammesso nella camera.
Solo Beppe, suo marito, infatti era riuscito a prenderle le misure col non avere opinione propria e facendo quello che lei comandava, ottenendo così autonomia di spazi e di rispetto che venivano tollerati da Ida. Poteva andare alla Casa del Popolo di Montelupo a veglia. Gli lavava i panni e glieli stirava e lo serviva a tavola. Giuseppe era anche l’ unico a cui mai si rivolgesse in modo sgarbato e irrispettoso.
A modo suo, si potrebbe dire, che lo amava.
Silvano con sua madre aveva un rapporto conflittuale, nel senso che la rispettava e in linea generale aveva sempre fatto quello che lei gli aveva chiesto ma alla fine aveva capito che Sabatina non aveva tutti i torti e sempre più mal sopportava la tirannia della madre.
Ribellarsi a lei non gli era facile, ma il carattere antiautoritario che gli era connaturato le impediva di accettarne le imposizioni. In particolare mal tollerava di doverle dare tutti i soldi che guadagnava.
Fu così che decise di affrontarla. Non era tanto il fatto che i bambini avessero bisogno di mare, piuttosto voleva una rottura, e definitiva, con sua madre.

Marina di Pisa all’ epoca ancora aveva le spiagge parzialmente erose (che sarebbero poi definitivamente scomparse negli anni Sesssanta), ma pur sempre spiaggia in sabbia, non come quelle della confinante Tirrenia ma comunque spiagge. Rispetto a Tirrenia i costi erano minori. Tirrenia era stata infatti un’operazione urbanistica a cura del fascismo e in quegli anni ne godeva ancora i fasti, soprattutto perché vi si erano stabilite le truppe americane a Camp Darby, non distante dalla cittadina litoranea, che contribuiva a rendere viva Tirrenia.
Quando una domenica di maggio arrivarono a Marina di Pisa e scesero alla stazione nella pineta la cittadina piacque a entrambi, soprattutto a Luigi e Fabrizio, che avevano portato con sé.
Telefonicamente avevano avuto un contatto con la famiglia Billeri, che abitava in piazza delle Baleari. Sapevano che era davanti al Mare lungo il viale per Tirrenia.
Cominciarono dunque a camminare alla volta del centro della cittadina.
Non era agosto, non erano i solleoni di fine luglio e inizio agosto ma era un caldo opprimente, anche se le 10 del mattino.

- Mamma, babbo! Guarda! Il mare! – grido Luigi.
- Dove? – fece eco Fabrizio.
- Laggiù!

In lontananza fra le case che si aprivano su una strada aperta verso il mare si vedeva il luccichio della distesa dàacqua, piatta.

- Mamma, io voglio venire al mare qui. Ti prego.
- Dillo a tuo padre. – Rispose Sabatina.
- Babbo! Ti prego...vorrei venire al mare qua.
- Anche io! – lo supportò Fabrizio.
- Va bene, va bene. – rispose Silvano, cercando di tenerli a bada.
- Deve essere quella piazza delle Balearì – disse Sabatina.

In effetti in fondo alla strada, da cui avevano avvistato il mare, si intravedeva uno slargo a semicerchio, che corrispondeva alla descrizione che gli avevano fatto la famiglia Billeri per telefono.

Tuesday 16 October 2018

Una nuova vita






— Vado a lavorare per la Camera del Lavoro, alla UIL. Mi ci manda il partito.
— Che partito?
— Il PSDI, Partito Socialista Democratico Italiano.
— Ma che partito è?
— Partito Socialista, diverso dai comunisti. Non abbiamo nulla a che fare con loro.
— Ma che lavoro è? Lavorare per un partito è un lavoro?
— Sí, è un lavoro.
— Ti pagano?
— Sí, mi pagano. dodicimalire al mese.
— Dodicimalire?
— Sí.
— E come farai con Sabatina?
— Ce la faremo.
— Ora avete anche un figlio...
— Ce la faremo.
— Ma qui c’è la terra. Ci siamo trasferiti a Montelupo. Abbiamo tutta questa terra. E tu mi lasci solo, me e Ida a lavorare tutto da soli. Porca M…a! Ma ti ha dato barta il cervello?
— Fai come ti pare. Io la terra non la voglio lavorare più. E poi è terra questa? Tutta sassi e mattaione[1]. Ti ricordi l’anno scorso gli olivi? Che annata! Erano pieni. Mai visti olivi cosí pieni. Poi è arrivata la gelata e tutto è andato perso. Ma che senso ha una vita cosi. Porcodd…o! E poi in estate io non ci voglio più andare a battere il grano con la trebbiatrice. Ma sai quanto tempo ci vuole per andare da Montelupo a San Salvi a battere il grano. Sempre la notte. Parti la notte e torni la notte. Sotto il sole. Sudicio di pula come un maiale. Arrostito dal sole. No, basta…io questa vita non la voglio più.
— Tu hai una fortuna sola, che hai Luigi...che è piccolo. Sennò piglierei quell’ubbidiente[2] lì e ti spaccherei quella testa dura! Lasciarmi solo a lavorare tutta questa terra. Quando l’ho presa contavo su di te...ora dovrò prendere qualcuno a cottimo...

Lo scontro con suo padre fu duro. E lo sapeva. Lo sapeva che sarebbe stato duro. Ma Silvano aveva deciso. Mai più lavorare la terra. Lui aveva fatto la quinta elementare, ma era intelligente. E voleva fare il politico. Voleva cambiare le ingiustizie. Voleva cambiare il mondo. Voleva che anche i poveri diventassero ricchi. Per questo voleva lavorare per la UIL e il partito.
E ora rimaneva Ida, sua madre. Con lei prevedeva uno scontro ancor più violento. Ci sarebbero stati giorni (forse almeno un mese) in cui non si sarebbero parlati. E poi Sabatina. Sabatina era una donna di poco coraggio. “Una bocca chiusa ne chiude cento” ripeteva sempre. E questo era il suo male. Veniva da una famiglia di fascisti. Chiudere le bocche era la loro specialità, e tuttavia suo padre, lo aveva trattato sempre con grande rispetto. Sapeva che Silvano non era fascista, ma sapeva anche che non stava con i comunisti.
Suo nonno Giovanni gli ripeteva sempre “Figliolo mio ricordatelo: i comunisti sono peggio dei fascisti”. 

Dalla fattorie della Striscia, su insistenza di Ida, si erano trasferiti a Montelupo per due motivi. Il primo era che Silvana, sua sorella, si era pure lei sposata, con un finanziare e viveva a Castelfiorentino. Dalla Striscia andare a Castelfiorentino era quasi un’impresa. A Montelupo, in una località chiamata Villambosco, avevano trovato delle terre da lavorare a mezzadria. L’occasione pareva buona. Montelupo era vicino ad Empoli, sulla linea ferroviaria per Firenze ma anche per Siena. Da Montelupo raggiungere Castelfiorentino via treno era abbastanza agevole.
Con l’ età Ida era sempre più divenuta insofferente alla fattoria della Striscia. Poi il fatto che la figlia andasse a vivere a Castelfiorentino le aveva fatto provare il desiderio di vivere maggiormente a contatto con il mondo civile.
Era forse anche lei stanca di vivere nei boschi. Era nata nei boschi, se così si può dire, in quanto fin da quando aveva cinque anni veniva mandata nel bosco a controllare le pecore al pascolo; a sei anni già sapeva andare a cavallo e seguiva il gregge a cavallo anziché a piedi.
Con la fine della guerra anche alla Striscia si respirava un vento nuovo. I cambiamenti sociali, la loro eco era arrivata anche nei boschi di Volterra.
E Ida sembrava averli captati, più che Giuseppe.
Villambosco era non troppo lontano dal centro abitato di Montelupo. Le terre comunque non erano migliori. Anzi, sicuramente peggiori.
Vi era addirittura un vigneto a dirupo, rubato al bosco, tutto pietre e mattaione, che veniva chiamata Africa per la desolazione che presentava e il calore infernale che vi regnava in estate.
L’uliveto era vecchio e malandato. Il resto della terra era per la maggior parte a gradoni lungo la perpendicolare delle pendici della collina e a causa del terreno argilloso quando pioveva l' acqua vi stagnava eterna.
E tuttavia Ida puntò i piedi, alzò la voce, picchiò il pugno in tavola e Giuseppe cedé.
Silvano non prese posizione. Intravide anche lui l’opportunità di avvicinarsi al mondo civile. Montelupo, da cui era passato a piedi l’ 11 settembre da disertore, avrebbe potuto costituire il trampolino di lancio per mettere in atto il suo piano.
A Montelupo stavano costruendo una casa del popolo socialisti e comunisti, insieme.
A Empoli e Fucecchio erano nate le camere del lavoro e vi era la Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti di Bonomi, per cui Silvano manifestava simpatia.
Silvano dunque tacque e non oppose resistenza alle richieste della madre.

- Io non ci voglio venire a Montelupo – inopinatamente Sabatina cominciò a far resistenza.
- Ma perché? – Silvano non si aspettava che proprio Sabatina si opponesse al trasferimento.
- Perché mi allontano ancor di più da mia madre e dalle mie Sorelle.
- Ma che dici? Montaione forse forse è meglio raggiungibile da Montelupo che dalla Striscia. Le strade di sicuro sono migliori venendo Montelupo. Treno fino a Castelfiorentino, poi in corriera...e comunque non è più lontano, come tu dici, di sicuro non ti allontani...
- Ma io non voglio andare via da questi luoghi dove sono nata. A Montelupo non ci sono mai stata. Tu, una volta, mi hai detto che è un paese tutto nero, e che vi è un manicomio criminale...e poi tutti dicono che a Montelupo il clima è umido, perché vi è la foce del fiume Pesa che sfocia nell’Arno. Tua madre è un serpente! Ed è tutta colpa di tua sorella che si è sposata ed è andata ad abitare a Castelfiorentino. A lei però la casa gliel’ ha comprata e non ha battuto ciglio. A noi perché ha pagato il matrimonio è diventata un diavolo...

Ma Sabatina non avrebbe mai avuto il coraggio di opporsi a Ida. Con Silvano sì faceva delle sfuriate ma poi si fermava. Ida aveva un carattere troppo forte, incosciamente aveva assunto il ruolo che aveva coperto suo padre nella famiglia fino al giorno in cui era morto. Sabatina aveva chinato la testa con il padre, chinava ora la testa con Ida.





[1] Parola toscana per “argilla”. In particolare una specie di argilla bluastra.
[2] Parola toscana per indicare un tipo di zappa biforcuta.

Monday 15 October 2018

In viaggio di nozze a Marina di Cecina




La notte prima delle nozze Sabatina era entrata nella casa. Ida non l’aveva accolta bene. Aveva fatto un voltafaccia che Sabatina mai avrebbe immaginato.
Quando erano tutti a cena, Ida rivelò il suo vero volto, quello che aveva nascosto per tutto il tempo del fidanzamento, in cui si era manifestata come una donna scherzosa e brillante, in apparenza accomodante.
Mentre cavava la roba dal pentolone e gliela metteva nel piatto con nessun garbo gettandogliela come si getta le mele marce al maiale, accompagnò quel gesto con una frase che le sarebbe rimasta ficcata dentro il petto per tutta la vita.

- In questa casa, porco Pio Nono comando io! E qui si fa come dico io!

Sabatina trasecolò. Divenne tutta rossa. Sentì le gambe tremare e forse si fece anche un po’ di pipì nelle mutande.
Guardò Silvano, che però non la difese. Solo quando Ida si fu un po’ allontanata le mormorò:

- Lasciala perdere
- Ma perché fa così?
- E’ per i soldi del matrimonio. Ha dovuto pagare tutto lei. Tua madre non ha potuto contribuire. Ha un diavolo per capello.

Dopo lo sposalizio, avevano deciso che avrebbero fatto la luna di Miele a Marina di Cecina. Avevano affittato una macchina con autista che li avrebbe portati da Volterra a Cecina.
Si erano sposati nella chiesa di San Giusto, in Volterra, il pomeriggio. Avevano avuto una cena in un ristorante del centro di Volterra. Pochi invitati. Non più di venti persone. Ida aveva una faccia da funerale e non spiccicò parola. Ripeteva di tanto in tanto “Che bischero! Che bischero!”

- Con chi ce l’ha? – chiese Sabatina a Silvano.
- Con me.
- E perché? – sussurrò Sabatina a Silvano in un orecchio.
- Perché mi sposo con te.

La notte avevano dormito in un albergo di piazza dei Priori. La mattina seguente, dopo aver fatto colazione, con cappuccino e brioche in un bar di piazza dei Priori avevano atteso la macchina che verso le nove era arrivata puntuale.

- Che bellezza! – commentò Sabatina.

La macchina aveva preso a scendere da Volterra verso Saline. La vallata era dominata da un vapore, simile a nebbia che occultava la vista dell’ intera valle. Qua e là come isole emergevano dei cocuzzoli di collinette.

- E’ effetto del nebbione – rispose Silvano.

Sabatina era al settimo cielo.

- Come era buono quel cappuccino e quelle brioche al bar di piazza dei Priori. Non le avevo mai mangiate di così buone. Conoscevi quel bar?
- Sì, c’ero venuto con mio nonno, al mercato qualche volta. Quando si voleva comprare dei vitelli. C’erano dei sensali che venivano la mattina presto. Noi si veniva per incontrarli.
- Mi sembrava che conoscessi il barista. M'è parso che ti avesse salutato.
- Era un partigiano. L’ho conosciuto quando ero alla macchia.
- Sì?
- Lui una volta mi ha salvato la vita. Ci siamo presi, io e alcuni della ventitreesima brigata Garibaldi.. Uno di loro voleva spararmi. L’ ha fermato lui. Era il capo del manipolo.
- Ma strano...
- Strano che?
- Strano che ora lavori in un bar.
- Perché?
- Chi era un capo partigiano, ora di solito lavorano alla Camera del Lavoro, al partito...
- E’ che lui non era comunista.
- No?
- No, era liberale. I liberali son rimasti tre gatti. Sono quasi tutti confluiti nella DC di De Gasperi...
- Basta politica, Silvano. Oggi cominacia la nostra luna di miele. Non parliamo di politica.
- Ma me l’ hai chiesto tu.
- Ma tu, se cominci a parlare di politica non ti fermi più. E oggi non voglio che ricominci con la politica. E due giorni che parli di politica, con tuo nonno a cena ieri l’altro e ieri sera allo sposalizio. Non ne potevo più. Anche il giorno che ci siamo sposati!
- Ma me l’ hai chiesto tu, perché conoscevo il barista! Ti ho risposto. Che c'entra la politica? – alzò la voce Silavano.

Sabatina tacque, ma dentro di lei era un fuoco. Aveva imparato a tacere Sabatina, con suo padre aveva avuto una buona scuola prima che morisse di tubercolosi.
Ciò che le premeva ora era a rrivare a Cecina. Voleva vedere il mare. Non l’aveva mai visto. Ne aveva sentito parlare, glielo avevano descritto, ma lei non capiva proprio come fosse fatto il mare.
Cercava di consolarsi con quel pensiero. Si mise a guardare fuori dal finestrino. Ora la macchina passava vicino ad un fiume. Per la strada un calesse tirato da un cavallo. In lontanaza dei contadini con un paio di vitelli al lavoro nei campi. Poi la nebbia diradò e il sole cominciò a bruciare.
Dopo Ponteginori il paesaggio si fece più brullo e riarso dall’estate. La strada cominciò a correre lungo il fiume. Sabatina non trovava più nulla di interessante da osservare. Cominciò ad annoiarsi e a provare fame.

- Sabatina... – la riscosse la voce di Silvano, ora affettuosa.
- Sì?
- Che pensi? Non parli. Sei silenziosa.
- Eri nervoso. Sono stata zitta. Ora ho fame.
- Mi dispiace. Ma sono stanco. Prima del matrimonio ho lavorato tanto. Volevo mettere insieme i soldi per venire a Cecina. Resisti, il viaggio non è lungo. Appena arriveremo andremo a pranzo. Ho un po’ di pane in borsa. Lo vuoi? –
- No, il pane non lo voglio…dopo le brioche di stamattina, il pane rozzo di casa tua non lo voglio.

Silvano la guardò male ma non disse nulla.
Dopo Casino di Terra strada e ferrovia venivano a correre quasi in parallelo, allontanandosi dal fiume per poi riavvicinarvisi più avanti per un breve tratto.
Il paesaggio ricominciava a riacquistare macchie di verde fino a Cecina.

- Ecco Cecina – indicò l’autista – dove devo portarvi?
- A Marina di Cecina, in via Ginori. Alla pensione Il Pescatore – rispose Silvano.
- Ci sei già venuto a questa Pensione? La conosci?
- No, ma me l’ ha consigliata mio nonno Giovanni.

A sentire il nome di Giovanni, nonno Giovanni, Sabatina si rasserenò. Nonno Giovanni, era l’unico di quella famiglia che veramente l’amava. La riempiva di complimenti. La baciava appena la vedeva. Le chiedeva subito di sua madre Laura e delle sue sorelle, Artimisia e Primetta.
Dentro di sé comincio a divenire impaziente. Fremeva di arrivare alla pensione e vedere il mare, finalmente. E fra le gambe provò un nuovo tremore, che le era stato ignoto prima.

Gli americani liberano Volterra



Quando Silvano apprese la notizia ne fu contento.
Fu contento che i partigiani della ventitreesima brigata Garibaldi fossero stati costretti dagli americani a consegnare le armi a Volterra.
li erano sempre sembrati arroganti. E in fondo dei civili non era nemmeno convinto se ne curassero più di tanto, quando dovevano attaccare i tedeschi. 

- Ora ci sarà pace, finalmente – commentò Silvano a tavola – la guerra ora è davvero finita.

Silvano era potuto finalmente rientrare dalla macchia.

- Ora ci sarà la pace, ma solo per un po’ – rispose nonno Giovanni.
- Perché dici così?
 comunisti vorranno andare al potere. E non glielo permetteranno. Non so come andrà a finire. Di sicuro ci sarà un’altra guerra civile.

Il nonno si riempì il bicchiere di vino. Lo scolò d’un fiato. Si accese il sigaro. Fece un paio di tirate. Guardò fuori dall’ uscio. Era scoppiata l’estate. Nemmeno un filo di vento entrava dalla porta. Solo vampate di calore e il canto delle cicale.

- I democristiani non li vorranno al governo – continuò il nonno - gli americani e gli inglesi nemmeno. E Stalin non starà a guardare. E poi io non credo che tutti i fascisti che c’erano nella repubblica di Salò scompariranno d’incanto. Vedrai che da qualche parte rispunteranno. Mi sbaglierò, ma secondo me troveranno aiuto negli americani. Il primo obiettivo degli americani sarà contrastare il comunismo in Europa. Soprattutto in Italia. E magari i fascisti faranno comodo al loro disegno.

Suo nonno Giovanni non era mai stato in politica ma aveva sempre seguito la politica. Soprattutto, nonno Giovanni, era uno di quei contadini che sapeva leggere. E leggeva di tutto. A Volterra vi erano sempre state, fin dall’inizio del secolo, associazioni politiche socialiste e anarchiche che producevano fermento culturale e sociale. Frequentando quegli ambienti nonno Giovanni aveva imparato a leggere e a seguire le discussioni politiche.
Quando poteva andava al cinema a Volterra. Amava vestirsi bene e si profumava usando ancora la celebre acqua di colonia PIM, che nel 1918 quando la febbre spagnola fece migliaia di vittime veniva usata per disinfettare, credendo che fosse efficace contro il virus. Nonno Giovanni era l’esatto opposto di suo figlio, Giuseppe, padre di Silvano. Nonno Giovanni era contadino ma anche uomo sociale e uomo di mondo. Giuseppe, solo un animale da lavoro. Un donnaiolo scapestrato Giovanni, un monogamo ortodosso Giuseppe.
Ma nonno Giovanni era anche uno che aveva cervello, uno che aveva visione politica.
Silvano lo ascoltò e non rispose. Si disse che avrebbe aspettato, aveva tempo e avrebbe scoperto quanto di vero vi fosse in quello che il nonno aveva prognosticato. 

In quel momento la mente di Silvano era anche occupata da altri pensieri. Aveva sentito la storia di un fascista di Volterra che era vivo solo perché erano presenti gli americani. I partigiani lo avevano scortato al carcere con le armi, che però non avevano usate perché dietro li seguiva una jeep di soldati americani.
La moglie aveva accompagnato il marito (il fascista) per tutta la strada. Lo aveva difeso dagli insulti della gente mentre camminava per il centro di Volterra. Lo aveva tenuto a braccetto per tutto il percorso, e davanti all’ ingresso del carcere, prima di separarsi, lui l’aveva abbracciata e baciata. Aveva cercato di rincuorarla. E poi se n’era andato dentro scortato dall’inutile codazzo di partigiani.
Silvano immaginava la scena e si inteneriva al pensiero di quei baci. Pensava alla sua Sabatina, e come anche lui avrebbe potuto trovarsi nella stessa situazione, ma dall’altra parte.
Era tempo di sposare Sabatina. Da troppo tempo erano fidanzati, e a causa della guerra avevano vissuto in mondi diversi, quasi impossibili da congiungere.
Voleva fare una famiglia, voleva riprendere il lavoro. Ma non voleva fare ancora a lungo il contadino. Era un lavoro da bestie. Non voleva essere una bestia per tutta la vita, voleva essere un uomo, civile e politico.

Tutta la giornata dell’ 8 luglio era stata caratterizzata da un duello tra l'artiglieria tedesca e
quella alleata. Poi verso la mezzanotte i cannoni tedeschi avevano taciuto. E improvvisamente all'una di notte la gente di Volterra aveva sentito i passi dei soldati tedeschi muoversi per le stradine, come se quasi corressero. Poi ancora silenzio e infine una serie di spaventose esplosioni. I guastatori tedeschi stavano facendo saltare per aria i macelli fuori Porta Fiorentina, la strada verso via Garibaldi, la via San Lazzaro e lo svolto della Dogana. Fu la loro ultima opera. Poi fu il silenzio. E la fuga, definitiva.
All'alba del 9 luglio 1944 i primi soldati americani entrarono in Volterra. Con loro fecero ingresso anche i partigiani della ventitreesima brigata Garibaldi. Quando la città fu considerata sotto il controllo americano fu richiesto ai partigiani di consegnarte le armi.

Giuseppe, il padre, era venuto ad avvertirlo alle Cetine. Appena gli era giunta la notizia, verso le dieci del mattino, subito era corso dal figlio per riportarlo a casa.

- Silvano! Silvano! Esci. La guerra è finita!!! Sono arrivati gli americani a Volterra. – aveva urlato da fuori, davanti alla grotta, anche lui preso dall’euforia.

Quando Silvano uscì fuori il padre lo abbracciò e cominciò a piangere. Silvano lo abbracciò. E piansero così, abbracciati, dandosi delle pacche sulle spalle.

- E’ finita, è finita...- mormorava in modo indistinto il padre.
- E’ finita – replicava Silvano.

Dopo quasi nove mesi di macchia, di freddo, di buio, di vita da cinghiale, era ritornato a casa. E aveva avuto la sensazione di ricominciare a vivere. Di una nuova vita, senza paura finalmente. Ma era difficile abituarcisi. In verità si sentiva sperso, e aveva timore ad affrontare di nuovo il mondo. Fu una delle poche volte che in vita sua gli venne meno il coraggio.
Ida, sua madre, gli aveva preparato un pranzo per festeggiare. Sembrava che fosse Natale, ed era invece il nove di luglio.
Ma la fame gli tolse i pensieri, e la paura dileguò grazie al cibo che gli riempiva la pancia.
Ora sapeva che avrebbe potuto cominciare una vita di cui neppure ricordava il nome.

La fame e la fatica gli tolsero le paure che riempì con il cibo, giorno dopo giorno. Il lavoro nei campi lo stancava, la fame e la fatica erano saziate dal cibo abbondante e robusto di Ida che gli ridava forza. Lavorava come un mulo e mangiava come un lupo.
Passò un anno, passarono due anni di lavoro. Non successe molto in quei due anni.
Il suo mondo erano i campi, i filari delle viti, brulli in inverno e verdi in estate, e il cielo inseparabile sopra di loro. Era tutto quello che aveva visto negli ultimi due anni. Nove mesi li aveva passati nel buio di una miniera e il resto nel recinto dei poderi e delle stalle.
In estate aveva la distrazione delle aie dove andava a battere il grano, evitando di stare tutto il tempo a dorso nudo piegato sotto il sole a segare il grano.
Fu allora quando girava da fattoria a fattoria per battere il grano, e poi quando si spinse a Firenze, fino a San Salvi, per la battitutura con la trebbia, che cominciò a pensare che voleva un lavoro che gli permettesse di viaggiare.
Fu in quelle occasioni che cominciò a tradire Sabatina. La notte si dormiva all’aperto nelle aie, e non sempre si dormiva soli.

Friday 12 October 2018

Il mondo liquido del globalismo attuale (Dialogo filosofico-politico fra due vecchi)





A novantaquattro anni Silvano cercava solo di resistere. Di forzare il fisico a fare quello che non poteva più fare e la mente di conseguenza aveva difficoltà a stare al passo della volontà. Sabatina era confinata ad una sedia a rotelle. Camminava poco e a malapena. Era troppo grassa. Tante volte glielo aveva detto che doveva dimagrire.

— Io grassa? Ho solo lo stomaco gonfio — rispondeva. Lei non si vedeva grassa. Tutt’altro.

In quella nebbia di vecchiaia che gli avvolgeva il cervello (pressione alta, prostata, vene varicose, medicine in quantità industriale) cercava di trovare la strada. Di riorganizzare la sua visione che sentiva spengersi.
Aveva capito che se si spengeva quella visione avrebbe perso contatto con il resto del mondo. Era l’ultimo legame fra lui e il mondo fuori, quella visione. E aveva lottato negli ultimi anni per mantenerla.

Fino al crollo di Craxi era stato un leone. Un cavallo da battaglia, una bestia. Uno che non mollava mai. Che tornava da Roma la notte a mezzanotte e alle quattro del mattino si alzava per andare alla stazione e riprendere il treno per ritornare a Roma, solo per risparmiare sulla diaria che gli dava il partito.
Quando crollò il PSI, capì che era arrivato alla fine anche lui. Che finito Craxi sarebbe finito anche il suo lavoro, che il partito per cui aveva lottato e dato la vita non ci sarebbe stato più, che tutti quelli che sarebbero venuti dopo non sarebbero stati che nomi, aggiustamenti per ritardare una fine che non poteva essere ritardata ancora. La fine era stata decisa molto prima della fine.
Quel giorno per Silvano fu un altro 8 settembre 1943, un giorno in cui l’Italia di nuovo morí. Morì infatti la Prima Repubblica. E la Seconda non fu certo meglio. Se nella Prima era ancora l’Italia degli Italiani, nella Seconda vi era di tutto.
E poi arrivò la terza Repubblica quella più devastante, quella di Monti, Renzi e del PD. Quella dei burocrati di Bruxelles sordi a ogni voce dei popoli di Europa, la Bruxelles delle banche, dell’immigrazione di massa.
Dopo mesi di completo scoramento, di speranza in un riscatto di Craxi da Hammamet dove si era rifugiato per evitare l’arresto, una fuga concordata con la magistratura in realtà, Silvano aveva avvertito la perdita della visione che fino ad allora l’aveva sempre guidato.
Ma quella perdita aveva radici lontane. Risaliva al ’92. Nel suo tentativo di mantenersi lucido Silvano, nei giorni della vecchiaia malata si ricordò che poco prima della fine di Craxi Silvano aveva avuto un colloquio con un politico, uno di quelli che sarebbe sopravvissuto a tutte le Repubbliche. Uno di quelli che avrebbe spinto l’Italia a entrare nell’ inferno dell’Europa (come Craxi stesso l’aveva definita), salvo poi farne ammenda molti anni dopo e dichiarare che erano stati avvertiti da tanti economisti, anche americani, che l’Europa non avrebbe funzionato.

— L’aria sta cambiando. E’ chiaro che sta cambiando - gli aveva preconizzato - Qualcuno ha annusato che l'aria sta cambiando e si stanno organizzando per determinare condizioni più favorevoli affinché questa aria da cambiare produca un vento che soffi in modo più spedito.
— A che si riferisce onorevole?
— Che Craxi con Sigonella ha toccato il punto più alto nella politica estera italiana. Gli americani gliel’hanno giurata. Non andrà molto lontano.
— Ma Craxi lo sa?
— Beh, credo ne sia conscio.
— Forse si stanno cercando nuovi interlocutori in questo paese.
— È possibile. È possibile che i comunisti siano diventati più credibili di noi. Abbiamo puntato troppo su una politica filopalestinese. E poi con loro hanno cominciato dal Sessanta ad avere incontri. Credo che ora siano pronti a collaborare. Ci credono. Ritengono affidabili i comunisti. Vedono in loro una organizzazione strutturata, una macchina da business su cui fare affidamento.

Quella sera Silvano si rammentava di essere ritornato a casa pieno di presentimenti sul futuro del partito e paure sul suo.

- Forse dovrò cambiare lavoro.
- Perché? – gli chiese Sabatina.
- Ho intenzione di mettermi a fare l’assicuratore. Di aprire un’agenzia di assicurazioni.
- Ma come? Per anni non hai inteso ragioni. Partito, partito e partito. In questa casa si è vissuto di pane e socialismo. E ora vuoi cambiare.
- I tempi non sono più quelli di una volta, Sabatina.
- Che vuoi dire?
- Voglio dire, che il nostro mondo sta per finire. Se ne apre un altro che non sarà più il nostro. Forse sarà quello di Luigi e Fabrizio. Forse più di Luigi, Fabrizio è come te. È senza coraggio. Sono preoccupato per quel ragazzo. Che farà quando noi non ci saremo più?

Sabatina tacque. Non capiva dove voleva finire Silvano con quei discorsi. Capiva però che questa volta Silvano aveva ragione. Anche lei avvertiva quello. Sentiva che non era più la donna che si era sentita una volta. Qualcosa era arrugginito, guasto, corrotto, marcio in quel mondo che li aveva finora accompagnati.
Luigi ad esempio, com’era cambiato! Da quando si era fidanzato. Da quando aveva conosciuto Maria. Da quando si era sposato soprattutto. Era divenuto chiuso, parlava poco e mai delle sue cose personali. Non era più il bambino chiacchierone che lei aveva partorito. Era un altro. E qualche volta la intimoriva, ma comunque era sempre il figlio maggiore con cui confidarsi e prendere le decisioni.
Fabrizio anche se aveva messo famiglia e sebbene avesse due figlie era sempre senza testa. Non aveva combinato molto nella sua vita. Non aveva finito l’università. E poi aveva voluto sposare quella donna, che lo avrebbe solo fatto soffrire. Era un testone. Gliel’aveva detto quando aveva avuto Monica, la prima figlia, di non sposarla quella donna. “Riconosci quella bambina ma lei non la sposare. Non è la donna per te.”
Silvano cominciava ad avere segni di cedimento. Non era l’uomo di qualche anno prima. Certe volte taceva. Si sedeva in poltrona, pareva dormisse ma non dormiva. Di tanto in tanto scoteva (tentennava) la testa come sua madre Ida. Pareva più vecchio. Era ingrassato e sotto il mento era come se avesse due bazze a causa del grasso che gli si arrotolava. Gli pendeva una pappagorgia che somigliava ai bargigli di un tacchino.

E lei, Sabatina, non voleva ammetterlo, ma sapeva di essere divenuta intollerante. E avvertiva che non amava più quell’uomo che l’aveva cosí tanto fatta soffrire. Troppi tradimenti, troppe bugie.

— Sabatina! — si riscosse Silvano dal suo torpore.
— Che c’è?
— Sai che diceva Moro?
— No.
— Che vivevamo in un paese dalla passionalità profonda e dalle strutture fragili.
— Che vuoi dire?
— Che non mi pare più così. Mi pare che viviamo in un mondo liquido, dove le strutture non ci sono più ma solo onde che ti spostano ora di qui ora di là e non riusciamo ad uscire dal gorgo in cui quelle onde ci hanno precipitati.





8 settembre 1943. Fuga dalla caserma




Ce qu'il y a de plus profond en l'homme, c'est la peau.
(P. Valéry)
“Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta
e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta.”
(Curzio Malaparte)


Silvano…Silvano… — sibilò il commiltone da sopra, per avvertirlo degli spari.
Da sotto Silvano gli fece cenno che aveva capito.
In lontananza si erano sentiti dei colpi di pistola. Dall’altra parte della caserma, davanti all’uscita delle camerate, stava il colonnello con una pistola in mano e due soldati morti ai suoi piedi, a cui aveva sparato perchè avevano tentato di disertare, uscendo dall’ingresso principale.
Il colonnello tedesco avrebbe ucciso chiunqe tentasse l’uscita. I soldati rimanevano nelle camerate in attesa del loro destino. Di lí a poco sarebbero stati arrestati e deportati. I tedeschi aspettavano ordini, appena li avrebbero ricevuti avrebbero cominciato ad arrestarli.
I tedeschi avevano occupato tutta la caserma, la notte stessa. Non vi era via di fuga, apparentemente. Ma Silvano e altre due reclute con un caporale maggiore di Treviso avevano deciso di tagliare le lenzuola delle brande e di calarsi nel cortile interno della caserma, che non aveva vie di sbocco verso l’esterno, ma al centro vi era la grata di un tombino, che portava diretti alle fogne. Non era direttamente accessibile ai tedeschi, fino al momento che fossero penetrati nelle camerate. Solo allora avrebbero scoperto dell’esistenza del cortile.
Avevano deciso di tentare quella via di fuga, attraverso il tombino. Era rischiosa, potevano fare la fine dei topi. Nessuno conosceva dove portava quella fogna, ma era l’unica possibilità. Se andava bene, potevano sperare di scappare. Se andava male, o sarebbero morti in quel tunnel, soffocati, o li avrebbero ammazzati se li avessero scoperti.
Andò fortunatamente bene. La fognatura, nel sottosuolo, era di grandi dimensioni, ma piena di merda. L’odore insopportabile. Nausenate. Camminarono in mezzo alla merda piegati sulle gambe per molto tempo. In qualche punto gli arrivò quasi al mento. Difficile dire per quanto stessero immersi nel liquame. A Silvano sembrò un tempo lungo, infinito, ma quel canale sotterraneo doveva sbucare da qualche parte. E questo diede loro speranza. Non sapevano dove ma sapevano che da qualche parte sarebbe sbucato. Ne erano sicuri. Sebbene ad un certo momento avessero pensato che non ne sarebbero mai più usciti.
Forse passò un’ora, forse meno, difficile calcolare in quel mare di merda e di caldo soffocante, ma alla fine sbucarono in aperta campagna dentro un canale di scolo, ma all’aria, e poterono respirare. Uscirono sospettosi guardandosi intorno. Non c’era nessuno. Il sole era alto. Non sapevano l’ora. Risalirono l'abbastanza ripido ciglione del canale e s’incamminarono verso la prima cascina che notarono in lontananza. Sull’aia c’erano delle persone a lavorare che vennero incontro.
La notte alla cascina ci fu tanta luce come mai, in quella notte dell’ 8 Settembre 1943. Una cosa insolita per quei tempi, forse perché tutti erano abituati al buio notturno a causa del coprifuoco, per evitare gli avvistamenti delle incursioni aeree.
Ci fu un gran trambusto quella notte nella cascina. I contadini accesero un fuoco con le fascine per festeggiare la pace. Tutti erano contenti, gridavano che finalmente era finita la guerra, sarebbe cessata la carestia e i soldati sarebbero tornati a casa. Il piazzale era costellato di fuochi con gente che gioiva ovunque per l’avvenimento. Sembrava insomma l’uscita da un incubo:
Ma uno dei vecchi, forse il capoccia, apostrofava quelli che esultavano e bevevano dal fiasco ““Altro che pace, la guerra comincia ora…Ma credete davvero che i tedeschi se ne andranno buoni buoni? E poi se mai finirà questa guerra pensate davvero che questo paese sarà mai felice e libero? Ci scanneremo l’un con l’ altro, questo è certo”.

Quando era arrivato a Montorio Veronese alla caserma, Silvano aveva visto in lontananza il castello che era scolpito contro il cielo azzurro. Lo aveva guardato come si guarda un’apparizione imprevista.
Aveva un groppo alla gola entrando in caserma, sapeva che di lí sarebbe solo uscito per andare a combattere con l’alleato germanico. Non poteva immaginare che in pochi giorni le sorti dell’Italia si sarebbero sovvertite e l’alleato tedesco sarebbe divenuto il nemico e il nemico l’alleato.
Non poteva sapere che in un giorno si sarebbe disegnato un destino che per l’Italia avrebbe pesato per decenni a seguire, senza soluzione di continuità, come se fosse geneticamente iscritto nel DNA di quel paese.
Ma questo Silvano l’avrebbe capito tardi, gli ultimi giorni della sua vita.

Di quei giorni passati nel cascinale prima di partire alla volta di Verona e tentare di prendere il treno per Firenze Silvano si ricordava una mattina. Il sole era già alto, ed era caldo nonostante fosse quasi metà settembre. Il cielo appariva pieno di cirri setolosi e bianchi come latte di capra.
Nell’aia si erano riunite una ventina di ragazze in bicicletta. Indossavano abiti chiari che sotto il sole filtrato dai cirri assumevano ombrature scure, come in una foto in bianco e nero.
Davanti a loro si stagliava la campagna e una strada bianca lineare che spiccava in avanti come scolpita lungo la piana.
Silvano se ne stava sotto la tettoia della stalla e le guardava come si osserva un dipinto.
Quella imagine di fresca gioventù, di carne esposta al sole, l’ aveva provocato a tal punto che anche ora il ricordo di quel giorno gli faceva provare un’emozione così forte che pur all’età di novantaquattro anni diveniva lancinante. Era la stessa emozione ma attutita nel piacere della carne.
La prostata lo tormentava da anni e non andava che a peggiorare.
Per evitare la miseria dei tormenti presenti tornò a pensare al quadro neorealista, che perdurava nella mente; al ricordo di quelle ragazze che indossavano la bellezza della gioventù e si erano riunite nell’aia per andare al lavoro nei numerosi frutteti adiacenti alla cascina.
Si ricordò di Bruna, che uscì improvvisa da uno dei circuiti del suo cervello. Bruna! come aveva potuto dimenticarla?
Quella mattina anche Bruna era nel gruppo. Avrebbe voluto chiamarla ma si bloccò.

Gli altri commiltoni che abitavano dalle parti di Treviso erano partiti la mattina presto. Avevano ricevuto abiti e scarpe dai contadini. Tramite un loro conoscente, amico di un ferroviere che lavorava alla stazione di Verona avevano avuto informazioni riguardo a quali treni prendere per aggirare i controlli e come entrare in stazione in modo da evitare le pattuglie tedesche.
Erano partiti la mattina verso le tre e mezzo, per camminare al buio fino a Verona, un paio di ore in tutto.
I contadini li avevano riforniti di frutta e pane che avrebbero potuto mangiare per la strada.
Di giorno un gruppetto di ragazzi giovani con i capelli rasati e con borse piene di cibo avrebbe dato troppo nell’occhio e per questo preferirono partire con il buio.
A Silvano era stato consigliato di aspettare ancora un po’. La linea per Bologna era la più pattugliata, appena si sarebbe allentato il controllo lo avrebbero informato.
Silvano si era annoiato tutta la mattina e aveva gironzolato l'intero giorno per la cascina, finché dopo pranzo, nel primo pomeriggio non si era imbattuto negli occhi neri di Bruna.
Due seni sodi come due cocomeri, un naso forte, sguardo penetrante e fiero, montato su un sorriso robusto e candido.
Era stata un’apparizione.

— E tu chi sei? — lo aveva interrogato Bruna in modo diretto e senza rispetto.
— Mi chiamo Silvano. Ho disertato e sono fuggito dalla caserma due giorni fa. Sto aspettando di partire.
— Sei toscano? — gli chiese.
— Sì
— Di dove sei?
— Di Montaione
— E dov’è?
— Vicino Firenze. Conosci Firenze?
— Sì.
— Ce l’hai la ragazza a Montaione?
— No — mentí Silvano.

Poi Bruna lo aveva fissato intensamente.

— Sei un bell’uomo — gli aveva sparato in faccia e si era allontanata a piedi spingendo la bicicletta a mano, senza voltarsi.

La notte mentre dormiva nella stalla Silvano si era svegliato di soprassalto impaurito. Qualcuno aveva sollevato la coperta e si era introdotto dentro.

— Chivalà? — aveva bofonchiato, con il cuore che batteva forte, la recluta Silvano.
— Ssssshhhhh! – aveva sibilato una voce femminile dall’alito caldo e dolciastro vicino al suo orecchio sinistro e poi aveva gli appoggiato una mano sulla spalla.

A proposito del ruolo dello scrittore e di un libro di Giorgio Colli.

  Molte volte mi sono chiesto quale sia il vero ruolo di uno scrittore. O perlomeno quale dovrebbe essere appunto il suo ruolo. Momentaneame...