Thursday 30 November 2017

IL MAGO DI GOXIAN (favola coreana buddista - III parte)



Parabola Seconda
Dove si parla della scuola e della montagna


Il mistero più grande e incomprensibile per tutti quelli che conoscevano Paolo Nha era il suo vagare per la montagna. Paolo si alzava la mattina faceva colazione e poi tranne qualche ora a scuola la mattina non rientrava a casa fino all’ora di cena.
Che faceva fino all’ora di cena ? Che faceva tutto il giorno?
Vagava sulla montagna di Goxian.
Che ci facesse nessuno lo sapeva. Chi diceva che parlasse ai serpenti. Chi diceva che ammaliasse gli uccelli. Qualcuno narra di averlo visto volare su di un grosso uccello, che aveva il suo stesso volto.
A me personalmente ha confidato di essersi ispirato al Vangelo, alla figura di Giovanni il Battezzatore: perché si deve sapere che Paolo non era buddista come la maggioranza dei koreani, ma cattolico grazie a un’amica di famiglia di 40 anni, di cui, lui, - 6 anni – si era innamorato e seguiva dappertutto. Dappertutto… beh! la seguiva a tutte le funzioni religiose a cui lei partecipava. La tallonava continuamente, peregrinava come lei di chiesa in chiesa, di funzione in funzione.
In quel modo, così, divenne cattolico.
Comunque, dicevo, aveva letto nel Vangelo di Giovanni il Battezzatore, che viveva nel deserto e si vestiva di pelli di cammello, e mangiava locuste e miele selvatico.
In tutta amicizia credo di essere stato uno dei pochi a cui Paolo ha confessato di aver, anche lui, mangiato locuste, vive per di più, e miele selvatico.
Andava per i campi a smuovere i favi. Ne carpiva il miele e poi fuggiva inseguito da uno sciame di api. E più volte fu punto.
La cosa straordinaria però fu che una volta fu punto così tante volte alla testa, che questa gli si gonfiò all’inverosimile, e per tre notti non poté dormire dal fuoco che aveva nella testa.
Ma lui che aveva sofferto sempre di emicrania da quel giorno non ne ha più avuto il minimo sentore (a bassa voce mi confessò inoltre che questo incidente, secondo lui, gli avrebbe anche aumentato il suo IQ, di cui parleremo più avanti ).
Come ho prima detto mangiava locuste. Errava per la campagna. Ispirato da Giovanni il Battezzatore.
Ma perché?
Con gli occhi bassi quasi inchinandosi in quel modo sottomesso e dolce che solo il mite popolo koreano sa fare ha osato dire: "Per svuotarmi "
Per svuotarti? gli ho chiesto. Ma lui come sempre non mi ha risposto direttamente ma ha continuato con un racconto.
"Quando mio padre, il prode Han Hi Son si trasferì da Goxian a Seoul, anch’io dovetti cambiare scuola. Mi presentai alla nuova maestra. Quella con modi bruschi e altèri, dopo aver letta la mia pagella, mi squadrò e urlò: non voglio nella mia classe uno con un livello così basso come questo pavimento! E se ne andò."
Il giorno dopo Paolo si presentò a scuola. Con la cartella in spalla si piazzò davanti alla porta d’ingresso dell’aula, con il sacchetto dei sandali (in Korea, infatti, non si può entrare in classe con i sandali e tutti i bambini li mettono dentro un sacchetto che appendono al loro banco).
L’insegnante non arrivava e Paolo era dritto davanti alla porta.
Gli altri bambini vedendolo lì fermo come un palo tolsero i sandali dal sacchetto e cominciarono e tirarglieli in testa. Il povero Paolo dové fuggire e ripararsi dietro una vetrata.
Ma indomito, cessata la grandinata, si rimise davanti alla porta. E via un’altra grandinata e un'altra fuga.
Alla fine quando vide arrivare la maestra Paolo uscì dal suo riparo, le si parò innanzi a testa bassa (che come dice Paolo è il modo, in Korea, per dire "Ciao"). La maestra lo oltrepassò senza neppure guardarlo. Chiuse la porta dell’aula e iniziò la lezione.
Paolo stette così in quella posizione per 50 minuti (in Korea nelle scuole elementari ogni cinquanta minuti c’è una pausa di 10 ). La maestra uscita per la prima pausa gli passò davanti e non lo degnò neppure questa volta del minimo sguardo. Poi sparì nella sala professori. A quel punto Paolo beneficiò di un’altra amorevole grandinata di sandali da parte dei nuovi compagni.
Ogni ora la maestra usciva e rientrava e Paolo lì, stoicamente impalato a testa bassa a sopportare l’ira della maestra e il benvenuto dei compagni.
Alla terza ora quando finalmente la maestra uscì per il terzo intervallo si fermò davanti a Paolo e gli disse:
"Ah ! Tu sei il nuovo studente. Vieni dentro."
Lo presentò ai nuovi compagni, di cui finora ne aveva apprezzato i soli sandali.
"Quello è il tuo banco." gli disse "e lui è il tuo nuovo compagno: Li Nang Yun"
Paolo lo guardò e vide una luna piena sorridergli. Era così grasso, quasi come la luna piena.
Il giorno dopo, quando ritornò a scuola invece dei sandali gli toccarono le frustate. Li Hang Yun (il demonio appare sotto molte forme) aveva infatti legato insieme alcuni cordini dei sacchetti dove si tenevano i sandali e con quelli gli diede delle belle sferzate.
Ma chi ha un grande futuro, si sa, è capace di sopportare anche le offese più grandi e di vincere.
Paolo quel pomeriggio, dopo la scuola, sparì sulla montagna dietro l’edificio scolastico. Scavalcò il filo spinato di recinzione che i contadini avevano messo a protezione del raccolto dei loro campi, e si inoltrò nel bosco. Di lì non ne uscì che la mattina,
Che vi avesse fatto non è dato saperlo. Quel che si sa è solo che per tutta la notte in montagna si vide un gran chiarore filtrare fra gli alberi.
Quella stessa mattina a scuola c’erano le prove di disegno e di canto. La maestra aveva dato da copiare una foto che ritraeva il mare. Paolo la fissò per 10 minuti senza batter ciglio.
Poi la dipinse uguale.
Tutti erano meravigliati: "Impossibile! Ma come hai fatto Paolo?"
La maestra lo fece sedere vicino a sé. E Li Hang Yun, lo guardava rodendosi d’invidia.
Vennero poi le prove di canto. Quando toccò a Paolo e aprì bocca, un suono celeste ne uscì. E incantò tutti. Paolo da quel giorno divenne eroe della scuola.
Il suo segreto?
Ancora una volta la montagna.
Ma qual era il lato magico di questo luogo?
Come influiva su Paolo?


Non so esattamente. Tutto quello che ho potuto capire è che lui in montagna si focalizzava su ciascuno dei suoi pensieri e ad uno ad uno li estirpava dalla sua mente, sgombrandola, svuotandola.
Si svuotava così di ogni cura e affanno e assorbiva tutta l’energia positiva coperta dai peccati e dalle energie negative della gloria del mondo (secondo Paolo, se ho ben capito, per esaltare la sua gloria il mondo ci ruba tanta energia positiva, ce la nasconde per dominarci). Riacquistava così tutta la sua energia; Si rafforzavano e raddoppiavano, triplicavano le sue capacità: penetrava quel 90% della nostra coscienza che Freud dice – così si esprime Paolo- non siamo normalmente in grado di usare.
Più volte mi sono domandato e gli ho domandato se avesse avuto un Maestro. Su questo per molto tempo ha taciuto.

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Wednesday 29 November 2017

STORIA DI PELO, IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO (III parte)



Uno di noi avrebbe cercato, a quel punto, di mettere la testa a posto, o quantomeno sarebbe stato più prudente. Figuriamoci Giovannin senza paura! Nulla. Sapete cosa fece? Una notte, saranno state le due o le tre di notte, piglia e va al Castagno; scassina la porta della sacrestia, sale sul campanile della chiesa e ci mette un grammofono e dgài a tutta càllara “L’Internazionale”, e via a gambe levate. Dopo neanche due minuti è lì una squadra di fascisti (“Dàgli al comunista! Dàgli al comunista!”, urlavano), che per dieci minuti prende a fucilate la cima del campanile, finché alla fine non ne vien giù il grammofono e si rompe in mille pezzi.
Per sua sfortuna, qualcuno aveva visto Giovannino e fatta la spia ai fascisti. Giovannino, avvertito, si dette alla macchia.
I fascisti vanno a casa sua, non lo trovano e allora pigliano la sua bicicletta a martellate e gliela disfanno. Non contenti prendono il suo povero babbo e lo portano alla Casa del Fascio. E lì a bottiglioni d’olio di ricino lo purgano ben bene.
Quel pover’uomo del suo babbo per poco non ci lascia le penne e ci rimane secco: “Son bell’e morto! Son bell’e morto!”, piagnucolava il poveraccio mentre tornava a casa, sbombardando quasi avesse mangiato fagioli per un mese.
Da quel giorno Giovannino la giurò ai fascisti. E quando poteva entrava nelle case dei più ricchi e gli rubava tutto, per poi darlo alle vittime del fascio.
Ma la passione della bicicletta era grande e Giovannino soffriva molto a star lontano dalle gare. Allora prese a travestirsi e a mischiarsi tra la folla per andare a vedere il suo amico Pelo. Pelo lo sapeva, gliel’aveva fatto dire Giovannino che andava sempre a vederlo vincere.
E ogni volta che Pelo saliva a prendere i fiori si guardava intorno (“Giovannino, dove sei?”), per vedere se riusciva a distinguerlo fra la gente attorno al palco.

E venne il giorno della Milano-Sanremo. Il sogno di Pelo fin da bambino. L’aveva affascinato la vittoria di Ganna, che fuggito sul Turchino, sotto il nevischio, caduto in discesa e ripreso da Georget ne fu infine superato. Ma buttatosi caparbiamente all’inseguimento lo riacchiappò a Savona per poi proseguire da solo e vincere.
Se Ganna era il corridore di quegli anni, come poteva dimenticare il mitico “Diavolo Rosso”, Gerbi, così chiamato perché indossava sempre maglia rossa, berretto rosso e scarpette rosse, con cinghietti rossi. Una specie di Mefistofele senza barba e baffi che, primo fra tutti, si depilò le gambe. Un matto da legare, un astuto, uno scaltro, duro e individualista afflitto da uno strano complesso di superiorità, che solo nella sete di fuga solitaria riusciva ad esaltarsi e ad appagare il suo senso mistico della corsa. Correre era vivere per lui. Correva quasi si trattasse di vita o di morte.
Una volta alla Corsa Nazionale, presso Asti – Gerbi era in testa – un ragazzo gli tagliò la strada e lui cadde a terra. Svenuto e sanguinante lo trasportarono in una farmacia. Qui gli suturarono la ferita alla bell’e meglio. Si mandò a prendere del ghiaccio per scongiurare la commozione cerebrale in attesa di essere trasferito all’ospedale. Gerbi si risvegliò, si ritrovò tutto fasciato – “E’ morto, è morto il Diavolo Rosso!” si diceva fuori – ; “Che è successo?” domandò lui.
Quando gli spiegarono che era caduto per colpa di un ragazzino e che nel frattempo erano già passati alcuni altri corridori, tutto malconcio, terreo in volto, risalì in bicicletta e pedalando raggiunse il gruppetto di testa e poi Gajoni che era al comando, in fuga solitaria. Lo staccò e fu primo a Milano.
Si scrisse allora che aveva pedalato come un incosciente, sudicio di sangue e di polvere; con la febbre martellante e mille faville davanti agli occhi; il profilo glabro e tagliente che spuntava a tratti fra le bende, come un diavolo. Le gesta di Gerbi, sentite all’osteria, gli erano rimaste fitte nel cuore a Pelo. Sentiva di assomigliargli al Diavolo Rosso, per temperamento e per coraggio. E se Gerbi si allenava con i mattoni legati alla sella della bicicletta, lui si allenava con il babbo nella cesta. Se Gerbi si era guadagnato il soprannome di Diavolo Rosso, Pelo si prese quello di Campione della Tripolitania. Correva con una bicicletta senza parafanghi, e all’arrivo era tanto sudicio e infangato da sembrare un africano.
“Babbo son emozionato. Mi tremano le gambe. Mi tremano le gambe solo a pensarci. Domani un ce la fò!”, disse Pelo al suo babbo la sera prima.
“Ma và ‘ia, coglione!”, fu il commento del babbo.



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IL MAGO DI GOXIAN (favola coreana buddista - II parte)





Parabola Prima

Dove una grossa tigre bianca preannuncia la nascita di Paolo Nha.

Se la nascita di Buddha fu preannunciata dal sogno di un elefantino bianco che indolore penetrò nel corpo di sua madre, la regina Mahamaya, così una notte la madre della tigre di Goxian (il nostro Paolo) sognò di scendere da un'alta montagna.
A un certo punto si volse indietro e vide che un'enorme tigre bianca la seguiva dappresso.
Ma come la madre del Buddha, non ebbe né pena né paura. Si trovò in mano un bastone e con quello cominciò a colpirla sulla testa.
Ma la tigre, come avesse le zampe legate, non reagì; e come quando un gattone riceve delle pacche sulla testa, si limitava ad abbassare la testa e a chiudere gli occhi.
La tigre, nel sogno, seguì la donna fin sulla soglia di casa. Nonostante la donna continuasse a colpirla perché non entrasse, la tigre voleva entrare.
In quel momento comparve la zia che gridò: "Perché non vuoi farla entrare?"
A quell’interrogazione nacque la tigre bianca di Goxian, che mai si ribellò alla madre sua, che sempre seguì docile il suo volere come avesse le mani legate per non graffiare.
Privilegio dei predestinati è  fin da piccoli manifestare segni prodigiosi che ci invitano a gioire, perché un grande destino li accompagnerà.
Si narra che Kala Devala fosse il primo a vedere il giovane Buddha. E quando vide il piccolo Siddharta prima rise e poi pianse.
"Perché piangete? Mio figlio sarà forse colpito da gravi sventure?" gli chiese allarmato il re Suddhodana, padre del bimbo.
"No" rispose Kala Devala "Ho sorriso perché ho avuto il privilegio di vedere un essere che, come percepisco da segni particolari del suo corpo, è destinato a divenire un Illuminato, un Buddha. Ma se guardo al mio futuro. scopro amaramente che non vivrò abbastanza per sentire i suoi insegnamenti. Ecco perché ho pianto. Gioisci o re poiché tuo figlio diventerà il re più grande del mondo!"
Anche Paolo quando aveva un anno manifestò i segni di un grande avvenire. Ebbe uno sfogo di febbre ombelicale sulla testa. Lui dice forse a causa delle bastonate che sua madre aveva dato alla tigre.
E per il gran prurito continuamente si grattava la testa.

A impedimento di ciò sua madre gli legò le mani con una corda. Lui era solo in camera. Cominciò a cantare una specie di ninna nanna e nel mentre le croste magicamente scomparivano. Ritornò la zia, e lo trovò avvolto in quell’incantesimo. Lo prese fra le braccia e lo sollevò alto in cielo mentre versava copiose lacrime e un sorriso di gioia le illuminò indubbiamente il volto.

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Tuesday 28 November 2017

IL MAGO DI GOXIAN (favola coreana buddista - I parte)



Un giorno ho conosciuto un grande mago. Un mago bambino. Paolo Nha.
Oggi i maghi non vivono più nei castelli o nelle foreste. Ma qui tra noi. Magari a prima vista  gente comune. Ma a parlarci, a conoscerli, ti aprono a grandi segreti.
Paolo Nha ne ha fatta tanta di strada per arrivare qui per insegnarmi i suoi segreti.
Paolo ha tanti anni. Ma fuori è rimasto bambino e questo è il suo segreto. Lui viene dalla Korea. Da Seoul.
Prima ha vissuto sulle montagne. Lì ha imparato i segreti per rimanere giovane. Ma io pensavo da sempre di parlare con un bambino. E invece lui aveva tanti anni.
Lui mi ha sempre taciuto di essere così vecchio. Finalmente quando l'ho capito, io gli ho chiesto come avesse fatto.
Lui mi ha risposto con tante parabole.


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STORIA DI PELO, IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO (II parte)



Quel giorno fece anche amicizia con Giovannino.
Giovannino, che tutti chiamavano Giovannin senza paura, perché era ardito e amava ficcarsi nelle imprese più temerarie fu l’ultimo ad arrivare.
Pelo era sul palco, in attesa d’essere premiato, quando vide arrivare Giovannin senza paura. Pelo lo guardò: “Come dev’èsse triste arrivare utimo, da solo, quando gli attri son bell’arrivai!”. E non si sentì più felice d’aver vinto.
Quando gli portarono i fiori per la premiazione Pelo disse: “I fiori un si mangiano. Portatemi piuttosto una bella pastasciutta a me e a qui’ ragazzo laggiù!” , indicando Giovannin senza paura, e gli corse incontro.
Da quel giorno diventarono grandi amici. Si allenavano insieme, insieme andavano all’osteria.
Il babbo di Pelo, che sotto la scorza dura era tutt’altro che cattivo, a veder quel su’figliolo vincere, non vi dico che provava. Non stava più nella pelle, e fu il primo e il più accanito tifoso di Pelo: “I’ mi’ figliolo è davvero forte. Lo dicevo io! Diventerà un gran corridore!”, andava dicendo a chiunque gli si parasse davanti.
Pelone non era molto alto, e poco più di lui lo era Pelo, il figliolo: 1,60 l’uno 1,55 l’altro. E qui viene il bello: a quel che si dice, un certo giorno Pelo prese uno di quei corbelloni da boscaiolo con le cinghie. Vi mise dentro il suo babbo, se lo caricò sulle spalle, e salì in bicicletta e via su e giù per quei saliscendi ad allenarsi.
Così faceva ogni volta che il babbo era libero. Quando invece il babbo non poteva nel corbello ci metteva dei mattoni. Oppure quando c’erano le fiere nei paesi vicini ci metteva le palle da bocce per noleggiarle alle dette fiere.
Pelo continuava a vincere una corsa dopo l’altra. Ormai Pelo era un vero corridore. Allora il babbo lo portò dal Gazzarrini a Volterra e gli comprò la sua prima bicicletta da corsa.
I suoi avversari facevano di tutto per fermarlo. Una volta un certo Pandolfo da Montaione, scommesse con Pelo che non ce l’ avrebbe fatta a mangiarsi una gallina lessa intera, e che tantomeno ce l’avrebbe fatta a partire. “Vuoi scommettere Pelo?”, gli disse Pandolfo. “Scommettiamo. Tanto vinco io!”, gli rispose Pelo. E fu di parola. Mangiò tutta la gallina, e vinse addirittura per distacco.
Un’altra volta ci fu uno, Carletto da Castelfiorentino, che durante la corsa gli fece bere la famosa acqua purgativa di Pillo. Ma anche qui nulla da fare. Pelo vinse, come sempre. “Vi vò in culo a tutti!”, gli rifilò a Carletto al traguardo
Lo picchiarono perfino. In una corsa di trecento chilometri, passando in località Asciano, all’inizio di una salitella – Pelo era da solo, in fuga, come spesso succedeva – lo aspettò una masnada di furfantelli che lo legnarono ben bene.
Già da un pezzo si mormorava che Pelo avesse un patto col diavolo.
Tutti cercavano di scoprire il segreto per cui lui andasse così forte. Qualunque cosa facesse prima, durante o dopo la corsa, subito tutti lo imitavano sperando di aver carpito il segreto della sua forma.
Si sapeva ad esempio che Pelo metteva nella borraccia un biberone d’acqua, vinsanto e tuorlo d’uovo sbattuto. Immediatamente molti, saputolo, lo imitarono. Risultato: tanti, s’era nel periodo del solleone, o per il gran caldo o per il vinsanto o per tutt’e due, si sentirono male e finirono all’ospedale.
Un giorno Pelo si presentò alla partenza di una corsa a tappe con un bel sigaro toscano in bocca; fumava che pareva un turco. Il giorno seguente così, alla firma prima della partenza, s’aveva la sensazione d’essere ai soffioni di Larderello. Metà del gruppo, o forse più della metà, fumava che parevano dannati. Andò a finire, al solito, che a mezzo della corsa più della metà dei corridori si ritirò, perché accusavano difficoltà respiratorie.
Ormai Pelo era un mito.
Ma una cosa in quei giorni lo preoccupava molto: il suo amico Giovannino.
“Giovannino sta’ attento ai fascisti”, gli diceva spesso Pelo. Ma quello duro, ostinato, sprezzante del pericolo continuava a parlar male del regime e a far propaganda comunista. Giovannino aveva più volte ricevuto avvertimenti. Un giorno gli avevano bucato tutt’e due le ruote della bicicletta; un’ altra volta, durante una corsa – Giovannino s’era staccato dal gruppo – una macchina gli s’era avvicinata e aveva cercato di farlo finire in una fossa.

Monday 27 November 2017

STORIA DI PELO, IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO (I parte)



a mia madre

Piero Chechi era un ragazzino di quindicianni. Come il padre, come il nonno, come il bisnonno, faceva il boscaiolo. Nessuno lo chiamava Piero ma tutti “Pelo”: Pelaccio il nonno, Pelone il babbo, Pelona la mamma, Pelina la sorella, Peluccio, Peletto, Pelino i tre fratelli.
Tutti i giorni estate o inverno inforcava la bicicletta e via per le viottole dei campi, per i sentieri scoscesi e impervi, con il biciclettone di ferro del nonno con tanto di gomme piene. Salite, discese, torrentelli, broti, e via su e giù per quei poggi accidentati. E quando pioveva via, con le ruote che affondavano dentro il pantano, ritto sui pedali per chilometri e chilometri con la pioggia che gli picchiava sugli occhi mezzi chiusi.
E quando passava per l’aie, tutti i ragazzini gli correvano dietro e gli facevano la pipinara. “C’è Pelo, c’è Pelo! Dài Pelo! Dài Pelo che sei il primo!”
E allora sì che ci dava dentro, Pelo. Pareva un fulmine su quelle stradine bianche, tutto impolverato. Partiva con il buio e tornava a casa con il buio.
Abitava in località i Sassi Bianchi, fra San Gemignano e il Castagno.
La sera gli piaceva andare all’osteria, perché lì c’era gente che aveva girato il mondo: chi era stato a Volterra, chi a Cecina; i più azzardosi a Livorno, qualcuno addirittura a Grosseto.
E lui ascoltava con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Si parlava di tutto, ma soprattutto di bicicletta. Si parlava di Petit-Breton, di Girardengo, di Ganna, di Gerbi “il Diavolo Rosso”. Della terribile Parigi-Roubaix, su quell’inferno di strada tutta pietra. Del Giro d’Italia, del Tour de France. Ma i racconti che più l’appassionavano erano quelli sulla Milano-San Remo. Perché era corsa quasi sempre con un tempo terribile, perché c’erano le mitiche salite del Turchino e della Cipressa. Perché si correva vicino al mare, che Pelo aveva visto solo una volta e ne aveva un ricordo impressionante.
Così cominciò ad andar matto per le corse in bicicletta. Si mise a seguire tutte le gare che si facevano nei dintorni. Prese ad allenarsi di brutto sui saliscendi tra San Gemignano, Certaldo, Gambassi e il Castagno: giro questo che faceva anche due volte al giorno.
C’aveva preso davvero gusto.
Il babbo, Pelone, cominciò però ad imbestialirsi con quel figliolo che invece di andare nel bosco a spaccar legna se ne stava tutto il giorno su e giù per quei poggi. E per di più mangiava come un pescegatto.
Ma Pelo non sentiva ragioni e, testardo com’era, continuava ad allenarsi. “Domani babbo vò a fare una ‘orsa a Montignoso. E gliel’è la festa di’ Patrono e fanno una ‘orsa in biciretta. Mi ci sono iscritto e ci vò.”, disse una sera a cena Pelo al babbo.
“Tu’ se’ matto! T’ha dato di vorta i’ cervello! E’ l’ora di falla finìaa. E’ l’ora che tu’ metta i’ capo a posto. Da lunedì si torna a’ i’ lavoro ni bosco e basta con questa storia della biciretta, che tutti mi pigliano pe’ i’ culo. ‘Pelone, ho visto i’ tu’ figliolo ieri in biciretta, ma che vò ffa’? Un laora più con te, o che s’è messo a fa’ i’ cicrista?’ ”

Quella notte Pelo fece un sogno. Gli pareva di essere una locomotiva. “Com’ è bello essere un treno!”, pensava. Correva all’impazzata lungo la rotaia che gli sembrava infinita. Correva, correva lungo quella strada senza fine.
D’improvviso finì la rotaia e davanti vide una salita tutta bianca per il ghiaino, ritta e scoscesa da far paura.
D’un tratto si trovò a metà di quella salita. Guardò in giù e vide che veniva su pian piano un omino tutto nero. Sudicio, imbrattato di fango, con un biciclettone di ferro, nero anch’esso, enorme tanto che quell’omino vi pareva davvero piccolo lì sopra. Gli passò davanti a Pelo. Gridò qualcosa. Ma la voce gli mancò a Pelo. L’omino gli sfrecciò di fronte come un razzo. Pelo si girò e lo vide lassù in cima alla salita perso in mezzo a un chiarore che accecava a guardarlo.
La mattina Pelo si alzò presto che nemmeno si ricordava più del sogno.
A Montignoso vinse. Sull’ultima salita partì lui con il biciclettone del nonno e non ce ne fu per nessuno. Gli altri avevano tutti la bicicletta da corsa, ma non vi fu nulla da fare. Pelo parve un missile. Arrivò a Montignoso con venti minuti sui primi inseguitori.


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Friday 24 November 2017

"Storia di Pelo - il ragazzo che vinse la Milano-Sanremo"



Da oggi, dopo la riproposta di "Marco Pantani - la distruzione di un mito" che un ottimo successo ha incontrato, vogliamo ripresentare il nostro primo racconto sul ciclismo. "Storia di Pelo - il ragazzo che vinse la Milano - Sanremo". Breve racconto che fu inserito nel 2003 nel "Dizionario del ciclismo italiano", pubblicato dalla Bradipo libri e poi è stato ripubblicato su molti siti online, ultimo quello dello scomparso amico Matteo Patrone: Il Politico.
E che siti come Avanguardia Nazionale ha largamente ripreso per parlare di Pietro Chesi.
In toni da favola ripropone la vera storia di Pietro Chesi, che mia madre - nata dalle parti dove era nato e vissuto Pietro Chesi - mi raccontava in termini altrettanto favolistici.
Ma chi Era Pietro Chesi?

E' un eroe degli anni del ciclismo eroico, delle strade polverose e bianche, degli omini neri e sudici che con le loro gesta infiammavano gli animi degli italiani, della strade piene di fango in cui s' impantanavano quegli eroi dai neri biciclettoni con le ruote piene, che nasce la favola di un Carneade che sconosciuto a tutti beffa i campioni di allora rifilandogli un bello schiaffo, vincendo nientedimeno che la XX Milano - Sanremo del 1927.
Quel Carneade fu Pietro Chesi da Gambassi, in provincia di Firenze. Terra povera. Come povero era Pietro. Povero il babbo, boscaiolo di quella contrada toscana.
Pietro Chesi, classe 1902, che in quelle zone tutti conoscevano come Pelo, e che probabilmente fu un soprannome tramandato dal bisnonno al nonno e dal nonno al padre quasi appartenesse geneticamente alla famiglia, a giudicare dalle foto d'epoca ci appare non un gigante. Ma soprattutto sudicio, perché correva senza parafango. Quasi nero. Tanto che qualcuno, forse un giornalista di imperiali sentimenti, chiamò all'epoca "Il campione della Tripolitania".
A vederlo, nelle foto, sul biclettone non sembra certo l'airone Coppi dalle gambe lunghe e affusolate ma un modesto torello di quelli alla Vito Taccone o alla Vladimiro Panizza. Grandi polmoni e tutto muscoli. Dove la bicletta sembra più uno strumento da onesto lavoratore del pedale che prolungata estensione del corpo del grande campione con cui dialoga e sui cui danza.
Se Coppi aveva lo sterno carenato da leggero airone, Pelo (perché a Gambassi tutti lo conoscevano così, il Chesi) aveva un bel facciotto da torello di razza. Grande forza nelle gambe da far scoppiare i pedali. A ventidueanni vinse la sua prima corsa a Montignoso per la festa del patrono, con una bicletta normale. Tre anni dopo avrebbe vinto la Milano - Sanremo con una vera bicicletta da corsa.
Già da giovane, correndo per l'U.S. Castelfiorentino, si era messo in luce per essere un coraggioso, e uno scriteriato alla Gerbi: il famoso " Diavolo Rosso" , che si dice sia stato il primo, nella storia del ciclismo, a depilarsi.
Il torello da vero toscanaccio non scherzava né quando si allenava né quando era a tavola.
La diceria popolare racconta che per allenarsi sulle salite intorno a Gambassi mettesse il babbo dentro un corbellaccio da boscaiolo e caricatoselo in spalla inforcava il biciclettone e via su e giù per quei micidiali saliscendi che in Toscana chiamano "mangia e bevi".
E quando il babbo non poteva allora Pelo riempiva il corbellone di mazzi di bocce da pallaio, se lo metteva sul groppone e partiva per andare a noleggiarle alle fiere in Era o nei pressi di Volterra.
Quanto al mangiare Pelo era noto per la sua voracità da pescegatto. Dopo ogni vittoria quando gli si portava il mazzo di fiori rispondeva sempre poco garbatamente: "I fiori non si mangiano. Datemi piuttosto un piatto di pastasciutta!". Una volta, si dice, che per la festa di San Sebastiano il 20 di gennaio, giorno del Patrono di Gambassi, avesse divorato un'intera testa lessa di vitello.
Piemontesi, che si trovò a militare per un certo tempo con Pelo dopo che questi ebbe vinto la Milano-San Remo, racconta che il torello tutto muscoli e poca testa a tavola era altrettanto torello. Usava, dice sempre Piemontesi, riempirsi il piatto di tutti gli avanzi di tavola dei compagni e condirli con del buon olio d'oliva e sale e pepe e berci poi sopra un bel litro di Chianti.
La vittoria della Milano San Remo del '27 fu il capolavoro della sua vita. E se non fosse stato per questa sua vittoria alla maniera dei forti chi si sarebbe oggi ricordato del modesto torello di Gambassi?
Partiti in più di cento da Milano. Assenti Belloni, e Girardengo per via di certi dolori dovuti alla frattura del polso sinistro, si parte sotto un cielo plumbeo. L'andatura è subito di quella da stroncar le gambe. Prima di Tortona evadono Pelo, Porzio e un certo Tacchini, e pigliano subito un bel vantaggio. Sul Turchino Pelo attacca da campione di razza, dimenticando di essere solo un torello, e scollina con nientedimeno di diciotto minuti di vantaggio su un gruppetto che comprende i migliori: Suter, Binda, Piccin, Negrini, Piemontesi, Picchiottino, Battista, Giuntelli, Manthey e Brunero. Il gruppo è dietro allungato. In Riviera alle spalle dell'airone-torello Pelo si è formato un gruppetto di una ventina di unità. Ad Arenzano gli hanno rosicchiato un minuto. A Savona tre. Il gruppo più indietro è colto dalla sindrome del tira e molla e non riesce a riorganizzarsi per andar a riprendere i fuggiaschi.
Il torello ora vola come avrebbe volato l'airone Coppi con le sue cosce affusolate e il lungo collo dondolante. Pelo dondola invece le spalle e incassa il collo a mo' di tartaruga. Ma tiene. I maligni dicono che sarebbe stato aiutato da qualche macchina compiacente. Ma questa è la storia di Pelo. I maligni non fanno parte della sua storia.
Tutti ormai si aspettano il crollo di Pelo. Ma Pelo tiene. Ad Oneglia ha ancora 12 minuti di vantaggio.
Binda e Piemontesi partono troppo tardi alla caccia del fuggitivo torello. E con oltre duecentoquindici chilometri di fuga alle spalle, in 9 ore e 43 minuti alla media non indifferente di 29,485 l'eroico campione della Tripolitania nonché milite della I Legione della Milizia Ciclista, taglia il traguardo di San Remo.
La vittoria gli frutterà un gruzzolo di 13 mila lire! Quasi un regalo di nozze per sé e sua moglie che aveva sposato il 21 febbraio di quello stesso anno.
Binda e Piemontesi a nove minuti. Bresciani regola un gruppo che comprende il veterano Suter, Brunero, Picchiettino, Pancera, Gay e altri, a dodici minuti.
Partiti in 111 termineranno la corsa in 69.

Qualcuno racconta che all'arrivo Binda gli sia corso incontro e gli abbia gridato: "Scrivila questa vittoria. E' la prima e l'ultima: tu dovresti avere il mio cervello e io le tue gambe!"
E quella frase quasi predisse la fine di Pelo. Si piazzerà sesto alla XXI Sanremo del 1928 e decimo nel Giro d' Italia del 1928 .
Poi il torello Pelo si tramuta in cigno ed emette il suo ultimo triste canto che culminerà nel 1944 quando fu ucciso per mano degli antifascisti, che lo giudicarono colpevole di pratiche delatorie e collaborazionismo.

In memoriam di Pietro Chesi in primo luogo continuiamo a riproporre questo testo.

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Thursday 23 November 2017

Marco Pantani - la distruzione di un mito LA FINE (undicesima parte)




La fine

Ormai il Male lo aveva completamente divorato. Aveva interamente devastato il suo corpo.
Se ne stava sdraiato sul letto respirando a fatica.
Da cinque giorni era chiuso lì in quella camera. Disteso sul letto.
Le sue gambe non ce la facevano più a camminare e la sua mente era incapace di pensare.
Gli venne in mente Ginevra.
Com’era bella quel giorno che l’ho incontrata.
Perché non ho ascoltato le sue parole?
Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. C’era ora un profumo diverso nella stanza. Non era più quell’odore di fetido, di marcio, che ormai da anni lo soffocava e con cui quotidianamente conviveva dopo quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio.
Era un odore buono. Di pelle fresca. Morbida. Come i seni di una madre.
Di un alito caldo che gli respirava accanto.
Aprì gli occhi.
Ginevra! Sei qui!
Anche tu Abramo! Ci sei anche tu Abramo!
“Sei contento di vedermi Marco?”
Sì Ginevra. Tu sei stata l’unica buona con me, in questi ultimi anni.
L’unica che mi ha detto quello che avrei veramente dovuto fare.
Purtroppo non ti ho ascoltato. Ora è un po’ tardi. No?
Mi dispiace…ti ho deluso…


“Ormai non conta più Marco. Quello che è stato è stato. Riposati Marco.
Chiudi gli occhi ora. Dormi.
Io starò qui vicino a te. Non ti lascerò più. Dormi Marco! Dormi…”
E Marco chiuse gli occhi. E vide un campo, sotto il sole cocente di un agosto torrido.
L’estate più calda che avesse visto. Ma non sapeva dove andare.
Un po’ d’ombra. Ho bisogno di un po’ d’ombra. Ho bisogno di sdraiarmi due minuti all’ombra. Non sopporto più questo caldo.

Si voltò a sinistra. In cima a un monte vide una querce. Alta. Enorme. Ai suoi piedi un’ombra fresca.
Prese allora la bicicletta e pedalò fino ai piedi del monte. Guardò su in alto. La salita era ripida, scoscesa. Sorrise. Sentì forza nelle gambe, come quel giorno all’Alpe d’Huez.
Attaccò la salita. L’attaccò fortissimo, in modo violento. Alla Pantani. A scatti. Scattava e rilanciava l’andatura. Scattava e rilanciava l’andatura.
Uno scatto. Poi un altro. Un altro ancora.
Delle rasoiate micidiali, da stroncare un toro.
Si voltò e vide il gruppo indietro, che si era staccato. Nessuno aveva retto alle sue accelerazioni, improvvise e violente.

Scattò. Scattò ancora. Scattò. Scattò senza fine…
Si voltò e vide il gruppo giù in basso. Un piccolo puntino colorato che arrancava, quattro cinque tornanti più sotto.
Era felice. Nessuno poteva resistergli. Quando lui decideva di andare via nulla e nessuno poteva stargli sulla ruota.

Arrivò in cima alla collina.
Solo.
Un profondo silenzio e un alito di vento.
Posò la bicicletta e andò verso l’ombra.
Era tutto sudato, e sotto quell’ombra si sentì meglio.
Sì adesso riposo un po’. Ho tanto di quel vantaggio che posso riposarmi almeno cinque minuti.
Si distese. Appoggiò la testa sull’erba verde e sentì un gran sollievo. Chiuse gli occhi e incrociò le mani sul petto.
Mo’ sto bene…nonno!


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Creatures

  His countenance likes me not. Such a deal of man Is he? a true God's creature?