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L'agenzia letteraria Toniarini Dorazi intervista lo scrittore Fabrizio Ulivieri






- Lei tratta generi letterari diversi, ma che sembrano animati da uno spirito in comune. A quale sente di appartenere di più? 

Domanda interessante e a cui mi è anche difficile dare una risposta. Di primo acchito risponderei che mi sento uno scrittore esistenzialista. Uso i generi per dare una appropriata forma letteraria, un ritmo adeguato, alla mia indagine sull’esistere per trovare una risposta a quello che Camus chiamava l’assurdo, in una chiave più moderna all’interno di una società che epocalmente è distante anni luce da quella in cui viveva Camus. Le domande sull’esistere non sono cambiate da quegli anni ad ora, quello che è cambiato è la gamma di opzioni in più che abbiamo oggi per cercare di dare una risposta.

- Nelle sue storie sono presenti ritratti interiori profondi, controversi; sono aspetti che vede negli altri oppure si tratta di sue proiezioni che la riguardano intimamente?

Credo che sia una rielaborazione di quello che vedo, vivo, provo sulla pelle alla luce di continue letture, riflessioni, analisi sulle direzioni politiche, economiche, sociali del mondo. Oggi non puoi più sottrarti al confronto con il globalismo, con la finanza globale, con le élite che condizionano il mondo. Non puoi più sottrarti alle loro narrazioni mainstream se non cercando di aderire ad altre narrazioni che rispecchiano meglio la direzione che hai impresso alla tua vita, quando quelle narrazioni ufficiali denotano ormai una distanza incolmabile fra te - il mondo che ti sei costruito – e la realtà ufficiale in cui ti vogliono immerso, ma a cui ti ribelli perché intuisci che per te quella realtà è ormai divenuta insufficiente e impossibilitata a dare le risposte che cerchi alle tue domande fondamentali.

- Nella storia d'amore del romanzo "Amore saltibarščiai e pomodori rossi", trattato in modo così autentico e originale e ambientato nella città in cui vive, ci sono tracce di esperienze personali?

Certamente. Chi crede che le opere di scrittori e persino di filosofi siano esenti da riferimenti alle esperienze personali, a fatti che hanno condizionato il loro pensiero facendo prendere ad esso una determinata piega, nega la verità stessa dell’atto creativo. Vorrei, per supportare la mia affermazione, citare un filosofo, Günther Anders. La sua riflessione ontologica sul mondo e sull’uomo, sulla insanabile frattura che vi è fra il mondo e l’uomo, nasce dallo choc provocato da una semplice frase della madre detta al bambino quando aveva sei anni. La madre avendolo portato davanti all’ospedale di Breslavia, indicandogli una finestra gli disse che quello era il posto dove era venuto al mondo.
Così commenta il filosofo quella frase: “Venuto al mondo – disse. Non dunque lei mi aveva messo al mondo…l’espressione significava che il mondo mi aveva anticipato, che esisteva prima di me, che io ero arrivato dopo”. Un trauma che non lo abbandonò più e che lo portò a teorizzare l’idea dell’uomo senza mondo e poi del mondo senza l’uomo.

- Ci vuole anticipare qualcosa sul suo nuovo romanzo ancora inedito che è prossimo alla pubblicazione?
I romanzi inediti per la verità sono due. Entrambi sono in mano alla Agenzia Toniarini Dorazi.
Due temi slegati, diversi. Entrambi però accomunati dalla ricerca del senso della vita, dal bisogno pratico di trovare un posto adeguato in questo mondo che dia infine senso al tuo esistere, che di per sé non sembra avere, a causa di un’indifferenza originaria del mondo rispetto all’uomo. Per essere significativamente nel mondo devi trovare la tua posizione giusta, in conseguenza della posizione che troverai, troverai anche il relativo senso.
Il primo romanzo, che dovrebbe (spero) uscire a breve si intitola “Isole di felicità”. Ha per protagonista una piccola famiglia lituana, che cerca la felicità negli svolgimenti della storia moderna lituana, nell’evolversi della società. La felicità che Rūta, la protagonista femminile del libro, cerca è una felicità pratica, una felicità che si sforza di individuare e raggiungere (di costruirsi) attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, mese dopo mese…è come navigare a vista in un oceano alla ricerca di un’isola che ti protegga per un po’ dalla furia delle onde. Un romanzo, a mio avviso, molto delicato, toccante, costruito intorno ad un personaggio semplice ma inquieto, che è Rūta. Un romanzo che ha attinto a stili e generi diversi, per dare forma a un tema che sfugge, si inerpica in visioni e angolature diverse ma sempre contenute.
L’altro romanzo, in cerca di editore, si intitola “Il giorno in cui l’Italia morì” ed è la storia di Sabatina e Silvano, dal 1943 al 2018. Tutta la storia di quei lunghi anni, che hanno formato e deformato l’Italia dal dopoguerra in poi, è vista con gli occhi della malattia e del senso della morte degli ultimi giorni di vita dei due protagonisti. L’Italia vera, quella che è fisicamente e spiritualmente esistita (tesi) si contrappone al distacco progressivo dei due protagonisti da quella stessa Italia che hanno in realtà vissuto ma nella malattia e nel senso della morte imminente si offusca, sfoca, scompare (antitesi) per lasciar posto a un grande nulla insondabile, che proseguirà per allertare il senso di ricerca di quali narrazioni abbiano dominato (trasformandola) l’Italia in tutti quegli anni nel figlio, Fabrizio, ultimo muto testimone della memoria di due esistenze che come ospiti si congedano definitivamente dal quel mondo che pure le aveva accolte in modo indifferente (sintesi). E’ comunque un testo che si interroga anche su valori ormai usciti dal nostro vocabolario quotidiano, come senso morale e senso dell’onore, morire per la patria, credere in valori (ideologie) che possono guidare la vita, giusti o sbagliati che siano, ma pur sempre valori che si antepongono come riferimento all’unico valore oggi imperante: il denaro.




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