Friday 1 September 2017

Amore šaltibarščiai e pomodori rossi: biografia di un amore dall’interno - (quinta puntata)


Foto Zivile Abrutyte



Ezòpinė kalba

Vyatutas Kubilius nella Lietuvių literatūros enciklopedija definisce l’ezòpinė kalba così “Linguaggio esopico, uno stile di sensi figurativi di chi nasconde idee contrarie al regime in atto e costruisce, usando metafore, allusioni e parafrasi, un' opera a senso doppio incomprensibile al pubblico e alla censura. Linguaggio tipico delle letterature dei paesi a regime totalitario”.
Identificare certi atteggiamenti storici (sistemi complessi) nell’atteggiamento di persone (sistemi semplici) mi portava a rintracciare nella donna che amavo i tratti storici che altri (filosofi, poeti, scrittori, storici) avevano altrove evidenziato.
Era come comporre un puzzle guardando il dipinto intero della figura da ricomporre e collegare manualmente e mentalmente ciascun pezzo a molti altri per collegarsi all’idea totale che domina ciascun pezzo.
In lei riconoscevo molti dei tratti che andavo scoprendo di quel paese, soprattutto con il passato sovietico.
In una persona che amavo ritrovavo i tratti storici di un’epoca, come in me ritrovavo i mali di un’Italia storicamente unificata male.
Questo continuo procedere per confronti mi apriva a una maggiore sensibilità, a una maggiore visione interiore (insight), e migliorava la mia capacità di osservazione.
In realtà da quello che mi spiegava Nerija Putinaitė, la filosofa lituana che mi accompagnava in questa scoperta del quotidiano storico stratificato, l’ezopine kalba aveva un ambito molto limitato, che non andava oltre l’espressione di emozioni a livello artistico, poetico, drammaturgico, e forse personale. I contenuti di resistenza al regime sovietico erano stati invece veicolati dal movimento di rivolta Sąjūdis.
L’ezopine kalba era una forma di libertà artistica di espressione dei sentimenti e delle emozioni elevate a necessità di presa di forma in un modo che il regime tollerasse, e che oggi ancora ha il suo effetto in chi cerca di sopravvivere alla realtà attuale: nenutrūkusi styga, un filo ininterrotto.

Amore e šaltibarščiai 

Il mio amore in verità non parlava l' ezòpinė kalba. Era diretta e ostinata nelle sue decisioni e io l'avevo cambiata. Si era aperta e si era addolcita. In un popolo in cui la menzogna era necessariamente la maniera di vivere o in alternativa alla menzogna il silenzio (il non dire) era preferibile, lei aveva preso fiducia nel prossimo. Di me, pur con qualche frequente caduta, si fidava, ora.
Aveva preparato il suo piatto preferito, lo šaltibarščiai. Voleva che lo provassi. Voleva trasmettermi l'amore che aveva per le cose.

L’amore si radica anche nelle cose concrete.
L’amore non nasce da una proposta, ma da un imprevisto. Comincia da lontano e prosegue per tutte le direzioni possibili verso una metà che non sai.

Mi guardava mangiando lo šaltibarščiai. Aveva un’aria indecifrabile tuttavia. Accanto a lei, sul tavolo stava una copia del suo giornale preferito: Žmonės.
Una scena simile potrebbe far pensare ad una donna leggera ma non è così.
Lei aveva un sentire profondo, sotto la superficie. Un’intelligenza sensitiva. Quasi un sesto senso.
Questa suo sesto senso mi modificava, mi cambiava. Me ne rendevo conto, anche lei faceva parte, era un’estensione del clima, dell’atmosfera di quella terra in cui mi trasferivo.
Certo fra noi doveva esserci stata un’affinità; in che maniera diversamente saremmo potuti rimanere legati per anni a tanta distanza, nonostante la diversità culturale? Diversità di lingua e di razza? Di pelle, carne e sangue?
Quell’affinità doveva essere forte, più forte degli accidenti che si erano abbattuti sull’essenza sempre uguale.

Fuori dalla finestra era agosto, non un agosto italiano ma comunque caldo. Lo šaltibarščiai è un piatto estivo e si mangia in estate, freddo.

- Mi ami? Mi chiese

Me lo chiedeva spesso, aveva bisogno di conferme e certezze, continuamente.

- Sì, tantissimo mano mažute[1]

Il suo modo di chiedere era leggero come il sole fuori della grande finestra che illuminava il soggiorno.
Mi sentivo in pace a Vilnius. E soprattutto svecchiato.
L’Italia è un paese vecchio, dove comandano i vecchi, con punte talora visionarie, ma sono solo insights “aperture illuminanti” che squarciano il vecchiume. Aperture provocate dall’esterno e che si abbattono sull’Italia, un paese in cui poteri forti si divertono (e si sono divertiti) a sperimentare.
In tal senso ero d’accordo con Zadie Smith quando diceva “People wrongly believe Italy to be a backward country. Actually Italy is a vision of what’s coming”.

Come ho accennato all’inizio, avevo cominciato a scrivere un libro sull’unificazione d’Italia. Avevo cominciato con entusiasmo. Vedevo in quel processo storico come tutti i mali dell’Italia moderna fossero rintracciabili. E mi appassionavo a rintracciarli, a farne delle giustificazioni a modo di una legge fisica classica.
Poi mi ero arenato.

Perché? Mi chiedevo.

Perché tutto sapeva di vecchio. Non parlo della storia, ovviamente, ma della narrativa sull’unificazione. Persino i cosiddetti “revisionisti” avevano una narrativa vecchia che non si discostava in nulla da quella che criticavano.
I saggi sul tema, i romanzi che avevano trattato l’Unificazione, gli sceneggiati, i film anche, si esprimevano tutti con una lingua vecchia, in nulla moderna.
Per quello mi ero arenato. Avevo bisogno di creare un modo nuovo di narrare, un linguaggio moderno per narrare in modo diverso. Per discostarmi dal male che affliggeva l’Italia: l’incapacità di cambiare.

Trasferirmi a Vilnius mi portava a confrontarmi da lontano con quel paese affetto da senilità.

Mi dava nuovi insights.

[1] Mia piccolina

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