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La forza dell'amore




Ultimamente Silvia, quando era a casa, passava molto tempo alla finestra di camera, quella dei bui giorni di novembre, guardando giù verso la valle dell’Arno.
Era il suo nuovo modo di interrogarsi. Di porsi le domande e cercare le risposte. E le cercava giù nel profondo della valle dove si congiungeva all’ampia ansa dell’Arno che in quel punto si piegava, rallentando la corrente. E così i suoi pensieri si allentavano in quella stessa piega.
Stava in tale postura cercando di mettere insieme i pensieri che giravano lenti e difficili da selezionare.
Perché stava lì? Nemmeno lei lo sapeva. Ma evidentemente era un luogo che si adattava a quel tipo di pensieri che ora aveva. Non si può pensare certe cose in ogni posto, indifferentemente. Certi luoghi favoriscono certi pensieri. Li portano a maturazione. Ne aiutano il compimento.
E forse stava lì per quello, per maturarne alcuni che nascevano in lei per la prima volta, che si concentravano tutti su quell’ansa del fiume che piegava a destra e addolciva l’impeto della corrente, come pure i pensieri, che a quella vista si temperavano.

Il piccolo Marco era uno di quelli, da tempo presente ma non ancora del tutto maturato. E doveva maturarlo. Pensare a Marco infatti le procurava uno stato di estensione, di allungamento. Se pensava al fratellino si sentiva ancora a Vilnius in quella atmosfera in cui il padre aveva vissuto e lei voleva con forza rivivere di lontano, ora.
Marco si stagliava dentro di lei come limite, il limite a cui suo padre era giunto e oltre il quale poi non era andato.
Aveva forse dato vita a un altro essere prevedendo di perdere la sua?
Sapeva di essere giunto al limite?
Se lo sapeva, vi si era accostato con coraggio e senza paura. Che a lei invece, credeva, mancava.

E le venne in mente allora il suo proprio limite, che per non soffrire si dava ogni volta che soffriva. Sapeva infatti che non aveva il coraggio di patire oltre il minimo necessario.
E allora sentì una voce di nuovo nel cuore. Io ti amo per questo Silvia.
E si stupì.
La voce insisté di nuovo. Tu mia piccola Silvia, credi in ciò a cui nessuno più crede. A quello che un giorno io insegnavo a te, scoprendoti mentre crescevi. Che gioia che tu ancora sei rimasta ferma a quei giorni. Non sono un limite Silvia, sono il dono più grande che tu hai fatto a te.
Come una luce, una scena di luce, rivide in quella Silvia scissa un uomo senza volto tutt’ora, che leggeva un libro ad una bambina dai riccioli d’oro e dagli occhi azzurri profondi. Babbo, diceva, leggimelo ancora.
E quello che lei, Silvia, aveva sempre sentito come un limite si rivelava un luogo di amore sconfinato, che il padre morto, le rivelava, laggiù in fondo alla valle dove i pensieri avevano principiato a fondersi con l’ansa del fiume che piegava a destra e dove rallentava la corrente veloce e si faceva più densa l’acqua per raggrumarsi in mulinelli che vorticavano infiniti e senza posa.

Aveva protetto se stessa e la sua famiglia. Aveva creduto di proteggere se stessa e la sua famiglia da quel padre che a un certo punto le sembrava prevaricare il suo rispetto. E se aveva sbagliato aveva sbagliato in onestà. Senza dolo, perché aveva creduto che fosse cosa buona e giusta agire così come aveva agito.

Mamma come era da nonno? Ti è piaciuto? L’hai visto lui? Le aveva chiesto Rebecca quando era ritornata da Vilnius.
Ecco, pensò Silvia, Rebecca non ha un limite. Il limite è solo per gli adulti. Rebecca non vede il limite fra la vita e la morte. Nemmeno immagina la morte. Nemmeno vede il limite fra il dolore, la sofferenza, e la gioia. Ancora non ha conosciuto né il dolore, né la sofferenza. Ma solo gioia.
Era bello, amore mio. Rispose a Rebecca. Nonno sta bene. E’ in cielo, ora.
In cielo mamma? Ma non era sottoterra?
Era. Ma ora è volato in cielo.
Forse si era stancato di stare sottoterra, mamma?
Sì, credo di sì.
Sottoterra è tutto buio mamma, in cielo c’è la luce. Vero?
Vero, Rebecca.
Se è andato in cielo, dovremo pregare per lui.
Silvia guardò sorpresa Rebecca. Chi ti ha detto questo?
Nonna Adele.
Fu di nuovo sorpresa Silvia, non sapeva che la madre di Alessandro fosse religiosa. Mai aveva detto una parola su Dio, sulla chiesa, su Maria...

Fu così che Silvia scoprì il senso della lentezza. Del lento sinuoso e talora contorto movimento dei pensieri. E prese piacere a seguire le loro evoluzioni, la loro sinuosa mulattiera entro cui si inerpicano incerti, ansiosi, timorosi talora, in cerca di uno sbocco che permetta loro di concretizzarsi.
E in quella lentezza dei pensieri individuava il suo νόστος, la nostalgia che segue al ritorno.
E quella lentezza che lei scopriva rispetto alla vita prima di Vilnius, frenetica senza respiro e di completo stordimento, le fece provare quasi un senso di elezione. Quasi fosse stata scelta a un compito e una vita nuova, che prima non le apparteneva.

Nonostante tutto aveva continuato ad amare quel padre, anche se lei si vedeva continuamente prevaricata nelle scelte di lui. E lui aveva continuato ad amarla sebbene la confondesse nelle sue scelte che pensava giuste ma invece la dimenticavano e la mettevano in second’ordine.
E l’amore alla fine trionfava. Trionfava anche dopo la morte.
L’amore dell’uno verso l’altra li aveva chiamati, e scelti, a un rapporto insolito, non comune.
Una forma di elezione rispetto al mondo comune che, all’opposto, avrebbe voluto a strapparli a quell’amore.

Farli cadere definitvamente nel baratro della perdita di memoria di quell’amore che esiste prima che l’uomo sia e vive e continua solo in chi si ostina e rimanere presente in quella forza che richiede coraggio e onestà con se stessi per non esserene deviati, allontanati e fatti cadere in modo quasi inavvertito, come il mettere un piede in fallo e subire un danno.

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