Sunday 12 January 2020

L'uomo impermanente (parte quinta)





Unaquaque res, quantum in se est, in suo esse persevarare conatur
(Spinoza, Ethica)

Venendo da Siesikų stotelė in autobus, fissavo le linee geometriche della strada, che davano il profilo di un'altra cultura. Più essenziale, meno bella, più controllata. Non era la mia cultura. Non era la cultura del paese in cui ero nato e vissuto per così tanti anni.
È questo il risultato dell'epigenesi - mi chiedevo fissando quelle linee - che ha dato forma alla mia coscienza per cui ora giudico ciò che vedo?
Si dice che siano i primi sette anni di vita a strutturare l'individuo. Sono i primi sette anni di vita quando scarichi tutti i programmi di cui hai bisogno per vivere il resto della tua esistenza. È questa l’epigenesi che guida l'esistenza dell'individuo?
Qui, dove vivo ora, non c'è l'idea della follia di Erasmo, non c'è la visione dell'eroico furore di Giordano Bruno, o l’ideologia dello Zarathustra di Nietzsche che ti ispira a andare oltre il limite, forzare al massimo la propria natura, oltre la propria condizione presente.
Qui, bevono e si ubriacano per dimenticare il limite. Non è mia natura bere e ubriacarmi. Ho dovuto fare appello a tutte le mie energie per superare questo nuovo concetto di limite a cui mi stavo abituando. Ho dovuto allora cercare in me quella forza visionaria che alcune persone hanno chiamato follia, e che da sola ti fa superare il limite invalicabile.
Ho guardato fuori dal finestrino dell'autobus, la precisione di quelle linee geometriche e le statuine umane che sembravano esservi incollate con estrema precisione.
Roma – ho pensato in quel momento - ebbe Scipione l'Africano e Fabio Massimo il Temporeggiatore. Scipione non avrebbe mai potuto diventare Fabio Massimo e Fabio Massimo non avrebbe mai potuto diventare Scipione, perché l'uomo è radicato nel corpo, nella propria materia, nella sua natura, da cui è quasi impossibile per lui fuggire, tranne attraverso la trascendenza della follia che gli consente di oltrepassarlo.
Solo un atto di furia e follia poteva rompere la gabbia dell'epigenesi.
Ma che tipo di atto era quell'atto, capace di spezzare l'epigenesi come il vetro di una finestra? Di cosa avevo bisogno per rompere quella natura e fuggirne via?

Volevo sparire da quel mondo. Pensai mentre sprofondavo nel sedile vicino al finestrino dell'autobus.
Volevo chiudere gli occhi e per sempre. Scomparire. Con quel semplice atto, volevo annientare me stesso e il mio insopportabile dolore di vivere.
Era sempre stata un'idea radicata in me da sempre. Se però fosse stato un vero desiderio di suicidio o un solo desiderio logico di scomparire, non potevo decidere.
Ricordo ancora come un giorno mi sia diviso in due parti. Una parlava e l'altra ascoltava. "Se mi lasci, non ho più nessun pretesto per vivere. Posso anche morire per obbedire finalmente alla voce che porto dentro di me dal giorno in cui ho avuto la possibilità di confrontarmi con la vita”
Non ricordo come sia iniziata quella voce.
Forse era data già prima, prima che potessi sentirla, ed era già lì. Non riuscivo ancora a sentirla, ma era sicuramente già lì."Quella voce ha il potere di affermare la tua volontà come libera", rispondeva l'altra parte di Me. “È una voce che è proiettata per affermare una volontà che non è la tua volontà, che è volontà limitata a questa esistenza. È una porta che deve essere aperta da te, finalmente. Capisci? Devi ucciderti per dimostrare a te stesso come se fossi capace di decidere tu stesso e libero di seguire una voce che è diversa da quella voce. E per annientare il potere di quella voce devi annientare te stesso, per essere finalmente libero da quella voce. Questa è la logica. Non hai altra scelta. " Parlava come in delirio.
La prima parte scoppiava così in lacrime. "Perché piangi?" – le chiedeva allora la seconda parte.
“Sono stanco di vivere. Ho bisogno di farla finita. È da quando ero un bambino che sono stanco di vivere. Se non posso vivere in pace con te, preferisco morire.”.
Anche l'altra parte cominciò così a piangere e disse: "Perché? Ti amo. Perché vuoi morire? Che dici?".
“Sono sopraffatto dalla vita. Non ce la faccio più. Per favore, viviamo in ​​pace. Ho bisogno di pace. Cerchiamo di vivere in pace, se ti perdo, non ho nessuna ragione per vivere e finalmente obbedirò a quella voce ".
Entrambi avevano la febbre.
"Tu chi sei? Tu chi sei? Non essere il mio nemico, per favore." Disse ancora l'altra parte.
"Non so chi sono. So che più progredisco verso questa voce interiore, più capisco che in fondo a Me c'è una monade che si costituisce continuamente e continuamente si informa”.

Non è successo spesso che mi sono diviso in due. Solo a volte, me lo ricordo bene.A volte mi succede anche di pensare ai miei genitori, che sono morti due anni fa. Volevo salvarli. Lo dico a mia discolpa perché volevo loro evitare l'ospizio ma invece li avrei gettati in un inferno. E quell'inferno sarei stato io. Li amavo così tanto, non potevo sopportare l'idea di metterli in un ospizio. Volevo sacrificarmi per loro, per la loro vita, fino alla fine. Ma avrei fallito. Avrei finito quasi di impazzire cercando di prendermi cura di due anziani quasi incapaci di camminare.
Avrei finito per essere il loro guardiano, il loro servo, il loro schiavo ... ma loro, a loro volta sarebbero diventati due vampiri. Mi avrebbero succhiato via le energie per sopravvivere, e io, a mia volta sarei diventato il loro carceriere, il loro tiranno, il loro aguzzino.
Ma lo confesso: li ho amati, Dio solo sa come li ho amati!
Presto ho capito che l'amore non è abbastanza quando il compito è al di sopra delle proprie capacità. Ho capito come l'amore non possa più comandare il corpo quando questo sia stanco, angosciato, debole, rotto dalla mancanza di sonno che dura da giorni, mesi, anni. Quando è devastato da una continua richiesta di aiuto, che non finisce mai.
Succede che mi ricordo di quei giorni in cui ero angelo e diavolo in una sola natura, in cui mi sentivo in colpa, ma allo stesso tempo ero consapevole che la mia era una fatica sisifea, impossibile per un solo uomo.
L'energia di cui i miei genitori avevano bisogno per sopravvivere e la succhiavano dal mio essere diveniva impossibile da rimpiazzare senza una pausa, una distanza certa da loro. Non vi era tempo per ricaricare ciò che perdevo, ciò che mi tiravano via.
E anche questi pensieri mi spingevano giù. In un giù senza fine.
Il suicidio diventò così una sottile linea rossa, sempre tesa, capace di unire tutta la mia vita.
Il suicidio divenne così il mio problema esistenziale.

Albert Camus iniziava il suo Le mythe de Sisyphe con queste parole "Il n’ya qu’en problème philosophique vraiment sérieux: c’est le suicide. Juger que la vie vaut ou non ne vaut la peine d'être, c’est repondre à la question fondamentale de la philosophie."
Poiché il suicidio era, secondo lui, innanzitutto un atto metafisico che precede il gesto fisico, per questo motivo dedicò gran parte del suo libro a Fyodor Dostoevsky. E continuava citando da Dostoevsky.
“Pertanto, nella mia incontrovertibile capacità di querelante e difensore, giudice e imputato, condanno questa Natura, che mi ha inflitto con tanta bravura e senza tante cerimonie questa sofferenza, mi ha condannato all'annientamento.... Dal momento che non sono in grado di distruggere la Natura, finirò per distruggere solo me stesso, solo per la stanchezza di sopportare una tirannia in cui non c'è nessun colpevole. " (dal “Diario di uno scrittore”).
La mia coscienza iniziò a immaginare quell'impulso bestiale. Era stato sicuramente bestiale. Inarrestabile. Impossibile da frenare.
C'è una parte dell'essere umano che è pura bestia, e l'uomo conosce quella parte solo quando la furia soddisfa quel momento che è impossibile da fuggire. Ma lo conoscerà solo dopo che l'atto è stato rilasciato, dopo che sarà fuori di sé.
Quella furia bestiale doveva essere stato un atto che proveniva da una parte a lui completamente sconosciuta. Un lato che non aveva mai sperimentato prima di quel momento.
Lo immaginavo come uno scoppio, un'esplosione, un trabocco di energia malvagia e aliena che l’aveva posseduto, come un attacco, un’epilessia provocata da demoni.
Iniziai a chiedermi se avesse qualche possibilità di essere scusato per la sua violenza.
Perché me lo stavo chiedendo? Non era forse un atto immorale voler giustificare uno stupratore?
Non avevo idea del perché me lo chiedessi.
Forse il dolore di un uomo è fratello del dolore di tutti gli uomini. Doveva essere quello il motivo.
In questo senso lui e la vittima erano simili.
Ma un essere umano, come dice da qualche parte Camus, ha anche una percezione sociale di ciò che è buono e di ciò che è cattivo. Un essere umano può alla fine dire "No!". Ma non aveva detto "No". E si era quindi, reso colpevole del suo crimine.
Ma era almeno consapevole del suo crimine? Si dice che la maggior parte degli atti folli siano commessi in modo abbastanza consapevole.
Forse, io credo, che solo dopo l'eiaculazione, sentì la profondità dell'abisso. Ma nel momento stesso di quel diabolico attacco, era incosciente..
L'inconscio si trova in quell’assenza tra il momento in cui l'atto viene rilasciato e il momento in cui è di nuovo individuato, quando ormai è oltre te e non è più tuo. In quel momento la mente è assente, perfino esclusa da se stessa, perché è liberata da tutto, perché ha escluso dal suo centro qualsiasi altra cosa o chiunque altro. E questo momento in cui l'inconscio è completo, il Sé, ogni Sé, che è al centro di quella mancanza di coscienza, non ha altro scopo che la soddisfazione di se stesso e l'annientamento della volontà e della resistenza dell'altro, al fine di riguadagnare se stesso.

Quando prese la ragazza per le natiche piene, dure e carnose, finalmente sentì il piacere della bestia soddisfatto da quell'abbraccio, desiderato per così tanto tempo, per molti giorni e molti mesi. Dimenticò tutto ciò che riguardava il mondo, e fu assurdamente perso al centro di quella presa di ferro, et vertatur in belvam.
Aveva 58 anni lui e lei 14. Aveva il corpo di una donna ma la mente di una bambina. Lui possedé una donna ma insultò e imbrattò una bambina. Per sempre.
Sapeva bene che sarebbe arrivato il giorno dell'espiazione del suo crimine. E gli fu portato dalle circostanze. L'arresto, la sentenza, la prigione ... una vita trasfigurata da un momento di follia incontrollata, la cui origine risiedeva in due glutei eccessivamente pieni e duri di una bambina che era già una donna.
E la sua vita finì appesa alle sbarre della cella, penzoloni a una cintura trafugata da qualche parte dell’infermeria del carcere.

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