Tuesday 4 June 2019

Il ricordo dell'olio (da "Il giorno che l'italia morì")







Il 1993, già l’abbiamo detto fu un anno orribile. Non solo per la politica. Vi furono attentati da parte della Falange Armata (mafia arruolata?). E fu l’ anno del “Io non ci sto!” di Scalfaro. Fu l’anno in cui la politica italiana, i politici italiani, impararono a capire che il potere che viene concesso loro è l’orticello di casa, il campetto dell’oratorio. Che le decisioni non le avrebbero mai più prese loro, se mai le avevano prese, ma sarebbero state prese altrove. In centri di potere cammuffati da Istituti di ricerca, con sedi in paesi anglosassoni, da cui si sarebbero emanate direttive che sarebbero state applicate via Bruxelles.
Fu l’anno in cui Jean Claude Trichet divenne presidente della BCE, amico e frequentatore di François Mitterand che, secondo l’economista Alain Parguez, fu il promotore dell’idea dell’Europa unita dall’euro, che la impose prima di tutto alla Germania, con cui poi avrebbero costruito l’Europa a loro misura, devastandola.Fu l’anno in cui cominciò un declino veloce dell’economia italiana e della indipendenza italiana e degli stati sovrani d’Europa.
Fu un anno in sordina, ma un anno decisivo. Un anno la cui energia sarebbe stata in larga parte ceduta agli anni a venire, come informazione che si trasferisce a orizzonti lontani ma non va persa.
E’ vero che vi erano anche possibilità contrarie che ci avrebbero guidato verso altre linee di realtà.
“Nella migliore delle ipotesi l’Europa sarà un limbo, nella peggiore un inferno”, aveva avvertito Craxi. Inascoltato. Tra il Bivio A e il Bivio B la maggioranza degli interessi aveva guardato al Bivio B. E si era presa quella direzione, con il risultato che la decisione di prendere il Bivio B occultò la possibilità del Bivio A e tuttavia di quella decisione mancata (la scelta scartata) ne rimangono sparse le posizioni che hanno occupato e continuano ad occupare rispetto all’avverarsi della decisione opposta.
Uno scrittore russo, Vadim Zeland, sostiene una teoria per cui, se vi è una forza determinante che ci costringere a pensare in una direzione, crea delle strutture di energia invisibile, che ci spinge a pensare nella sua stessa direzione. Esattamente quello che è accaduto nel 1993.
Non è questo alla fine ciò di cui ci parla la Storia? Della volontà di determinati gruppi che impongono la loro volontà per determinare linee di realtà preferenziali rispetto ad altre?.
Non era questo alla fine, quello che certe forze avevano determinato nella storia d’Italia dal 1943 in poi?
Non era questo, quello che Silvano e Sabatina avevano fatto in modo inconsapevole seguendo le proprie linee di vita, credendo ogni volta che fossero scelte e conseguenze autonome?
Non era questo il senso del Tradimento di Badoglio e del re? Del ’68, della strategia del terrore, di Tangentopoli?
Silvano e Sabatina avevano cercato di passare nel corso degli anni da una realtà che mutava a un’altra, senza opporvisi di frequente, o credendo di opporvisi più raramente. Avevano seguito quello che loro avvertivano come loro “intenzioni”. E le avevano seguite con la speranza di cambiare il mondo attorno che li circondava, come avevano fatto le opposte fazioni impegnate nella guerra partigiana e repubblichina nel corso della fine della II Guerra Mondiale, come avevano fatto gli studenti del ’68, come avevano fatto tutti coloro che avevano cercato la verità dietro il silenzio delle stragi, come avevano fatto coloro che avevano creduto che mandare in galera i politici corrotti avrebbe risanato l’Italia e forse anche il mondo intero.
Ma la realtà esterna non sempre coincide con quella interna dell’individuo. La realtà interna finisce per lo più incistata in quella esterna senza mai conoscere le potenzialità che ha di incidere in essa. L’incistamento le toglie l’orizzonte, la visuale. Il poter distinguere.
E così continuarono a vivere Sabatina e Silvano, incistati, come sempre avevano vissuto. Come vive la maggioranza delle persone in questo mondo. Né più né meno.

Ma un posizionamento adattivo (una prerogativa) di quando invecchi è che crei un linguaggio nuovo. Semplice, scheletrico, fatto di pochi lemmi, che si ripetono, sermpre quelli, come una litania. Un linguaggio che serve a descrivere la realtà di passaggio imminente, di sofferenza, autocommiserazione e dolori fisici, fra un universo ed un altro. E i ricordi. Il linguaggio dei vecchi è fatto e ruota attorno ai ricordi. Serve all’ottanta (forse anche novanta) per cento ad esprimere ricordi.
La lingua è semplice, pari alla poca energia che sostiene l’uomo in questa fase della vita. Le sfumature sono limitate. Non vi è più il senso della meraviglia e manca l’energia per concepirla. Per quello è più facile indirizzarsi a ciò che è più presente al modo di osservare il mondo in questa parte della vita. Il passato. Il ricordo.
Silvano guardava all’aria. Seguiva con gli occhi strani segni che si spostavano davanti e che lui vedeva. Con una mano cercava di cacciarli via.
Aveva lo sguardo spaurito. Pazzo. La bocca contratta. Il corpo indurito. Inteccherito.

- Babbo, che fai? – gli chiese Fabrizio.

Silvano sembrò calmarsi.

- C’era un disegno. Non lo capisci?

Fabrizio anche quella domenica, come era ormai da più di due anni, era con loro. Il fine settimana lavorava più che gli altri cinque giorni. Certi fine settimana, aveva calcolato, poteva arrivare addirittura a trentasei ore. E poi, erano in due. Due persone quasi completamente incapaci di muoversi e di fare il minimo indispensabile, che lui doveva assistere.
Il lunedì, quando ritornava al lavoro, era felice. Non gli pesava. Non aveva più lavatrici da fare, pranzi e cene da preparare, piatti da lavare, culi da pulire. Genitori da alzare, vestire, svestire e mettere a letto. E finalmente era con vivi! Persone vive! Che appartenevano al mondo dei vivi, e non conducevano le loro esistenze sotto la tormentosa agenzia della morte. Facevano discorsi da vivi. Pensavano da vivi. Avevano problemi da vivi! E a lui pareva di tornare a vivere.
Ormai sentiva che era allo stremo. Stava perdendo la testa, quasi come suo padre. Un altro poco e sarebbe stato irrecuperabile.
Aveva cominciato a pensare che doveva mollare tutto e andarsene.
Loris aveva trovato una filippina disposta a stare con loro a tempo pieno. Ora sapeva che non sarebbero finiti in un ospizio, la ragione per cui aveva deciso di assisterli lui – io non vorrei mai finire in un ospizio e non posso permettermi che ci finiscano loro, aveva detto a Loris.
Ora o mai più. Ora lasciare tutto e andarsene, o mai più l’avrebbe fatto.
L’avrebbe fatto, perché ora non ne dubitava.

- Che disegno? Non vedo disegni.
- Volevano distruggere la piccola e media industria in quegli anni.
- Ma di che anni parli?
- Dal ’90 in poi. Io l’avevo capito. Andreatta, Prodi, Ciampi, Amato, anche lui traditore…Io l’avevo capito già allora. Lo hanno fatto. Ma io l’avevo capito. Ero da troppo tempo in politica. Ero nato in politica con la Repubblica. Mica ero scemo. Avevo capito quel piano scellerato a favore di Francia e Germania. Ma anche Bettino fece un grande errore sulla scala mobile…

Non poteva, Fabrizio, quando suo padre parlava così, che seguire un sentimento di ammirazione per quell’uomo. Per quella lucidità a pena ritrovata, anche se in verità gli pareva che quella lucidità gli giungesse inaspettata, come il sole che improvvisamente viene rilasciato splendere da uno squarcio improvviso delle nuvole.
E poi aveva imparato, che quell’uomo era capace di esprimere cose lucide. Era un visionario. O era stato un visionario (ma questo lo avrebbe capito meglio dopo, molto dopo – verso il 2019 quando si sarebbe impossessato dei meccanismi che avevano portato al disastro economico di un intero continente) – e allora avrebbe capito molte cose di suo padre che prima non vedeva o non capiva. Ma sarebbe stato troppo tardi.
Le cose che sono rimaste troppo lungo incomprese possono un giorno tornare a brillare ma mancheranno sempre di quella luce che le aveva emesse nel loro momento originario – questo gli fu incontrovertibilmente chiaro il giorno che la lingua di suo padre si risvegliò dentro di lui, come di incanto. E fu un giorno che era ormai lontano dall’Italia e, camminandolungo una strada piena di alberi verdi e di luce, avvertì quella voce, così dolce e carezzevole.

Fabrizio, Fabrizio…ti ho mai detto dell’olio? Fabrizio ascoltò. Il mondo è strano Fabrizio. Non c’è niente di vero. Sono tutte bugie. Tu eri piccolo, noi nella nostra casa avevamo la cantina piena di olio. Noi che avevamo sempre usato l’olio di oliva…ebbene riuscirono a convincerci che l’olio di oliva non faceva bene, era troppo pesante. Che era meglio usare quello di semi. Era più leggero, più digeribile…Saranno stati gli anni Sessanta. Radio, televisioni, giornali…anche i dottori tutti dicevano che l’olio di semi era meglio di quello di oliva. Anche noi abbandonammo l’olio di oliva e cominciammo a friggere con quello di semi. E poi a metà degli anni Ottanta, ci hanno detto che esisteva la dieta mediterranea, che noi italiani eravamo fortunati, che avevamo l’olio di oliva. Che bisognava usare quello di oliva, anche per friggere…quasi da non credere. Con i soldi si compra tutto Fabrizio, anche l’opinione pubblica…nemmeno Marx avrebbe mai potuto immaginare cosa può comperare il denaro…

Di che vita gli parlavano quelle parole? Qual era il senso loro? A quale lingua appartenevano? Alla sua o a quella del padre?
La lontananza mette a fuoco distanze che neppure sembrano colmabili. Assomigliano a scherzi di cui non afferri il limite. Ma che indubitabilmente è.

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