Monday 14 January 2019

E non cangiò lo stile della travagliosa vita, la diletta luna





Onore a Voi, uomini e artefici della grande impresa spaziale. Onore a tutti coloro che hanno reso possibile l’audacissimo volo…onore a Voi che, seduti dietro ai vostri prodigiosi apparecchi governate, a Voi che notificate al mondo l’opera e l’ora la quale allarga alle profondità celesti il dominio sapiente e audace dell’uomo…e ciò che stupisce di più è vedere che non si tratta di sogni. La fantascienza, si dice, diventa realtà 

Le Parole di Paolo VI esaltarono quella notte in cui l’uomo sbarcò sulla luna. Una notte in cui il 96% egli italiani rimase incollato alla TV.
Una calda notte di luglio dove si vedevano finestre aperte e illuminate e le strade erano vuote.
Circa quattrocentocinquanta milioni di persone di tutto il mondo stettero collegate ai video per assistere all’evento e sentire la famosa frase di Armstrong quando pose il piede sul suolo della Luna:


one small step for a man, one giant leap for mankind 


Ma era una frase preparata, una di quelle cose che si dicono per celebrare avvenimenti. Avvenimenti che nulla cambiano all’andamento immediato del mondo.
L’esercitò Americano continuò la guerra in Vietnam e Il primo direttore dell'FBI, J. Edgar Hoover, nel 1968 dichiarò The Black Panthers, "Una delle più grandi minacce alla sicurezza interna della nazione".
In Italia iniziavano gli anni di piombo, le stragi, le bombe e si intensificavano gli scontri di piazza.
La Guerra Fredda si inasprì.
La gente continuava ad alzarsi, lavorare, mangiare e dormire. A sedere sul proprio culo, a gioire e soffrire nonostante il grande salto dell’umanità.
E non cangiò lo stile della travagliosa vita, la diletta luna.

- Puzzavate come tori
- Ma come puoi dire questo? – un po’ si offese Fabrizio.

Da quando Fabrizio aveva cominciato a giocare al Calcio nel Montelupo, era la prima volta che sua madre andava a vederlo giocare. Ed era meglio che non ci fosse andata. Solo Luigi qualche volta si era seduto in tribuna per vederlo giocare. Suo padre non c’era mai andato e mai ci sarebbe andato. Per lui sport e preti erano allo stesso livello, entrambi erano l’oppio del popolo.

- Mi si è avvicinato alla rete uno che puzzava di sudore, da far dare di stomaco. Sudato come un toro.
- Mamma, si gioca al calcio. Si suda. È normale.

Sua madre non era andata in tribuna, si era fermata a vedere giocare ai bordi del campo. Alla rete di recinzione.

- Ma perché non sei andata in tribuna?
- Ci sono le scale da fare. Con la gonna camminavo male. E poi non volevo rimanere a lungo.

Sabatina, aveva ormai quarantotto anni. Aveva ormai da qualche anno perso ogni confidenza con il proprio corpo. In verità non l’aveva mai considerato qualcosa di diverso da uno strumento di lavoro e di sopravvivenza; nulla che avesse a che fare con l’idea corpo = bellezza. Se bellezza nel corpo di Sabatina vi era stata, era stata quella dell’asino, la bellezza che tocca a ciascuno in gioventù: essere belli solo perché si è giovani. Con ciò non si vuole dire che Sabatina non fosse stata bella. Certamente era stata bella ragazza. Una volta aveva perso anche il lavoro, perché al tabacchificio di Barbialla dove lei lavorava, La Capra, il fattore, si era invaghito di Sabatina a tal punto che la fece licenziare perché Sabatina non voleva accettare le sue avances. Quando andava alla messa alle Mura con la madre, gli uomini la guardavano in modo insistente.
Anche da sposata, al mercato aveva avuto uomini, che avevano cercato di parlarle, conoscerla. Le avevano anche fatto proposte.
Ma il suo corpo viveva uno stato inconscio di clausura rispetto all‘idea di bellezza di quegli anni. Le era estraneo. Lo usava, lo lavava, lo nutriva, vi lavorava, lo riposava. Era piacere talora, dolore, malattia, gioia rare volte.
E ora che le sue gambe e i fianchi si erano ingrossati. Ora che comparivano le prime vene varicose. Ora che cominciava a ingrassarsi, ora che la bellezza sfioriva e le rughe arrivavano, per lei non era un problema. Faceva parte di un processo che le era naturale come il respirare, il mangiare o l’urinare e il defecare.
Per quello non era salita su per le scale. Perché naturalmente aveva avvertito una difficoltà a farlo che non voleva in alcun modo sfidare.

Ormai era giunta alla meno pausa e per tanti motivi il sesso la interessava sempre meno, se mai era stato motivo di particolare interesse, per cui il suo umore si era convertito in un’ironia vieppiù sarcastica e in un pessimismo assoluto che ottundevano le poche gioie e le continue delusioni della vita. Di sogni non ne aveva più nemmeno uno, se non il desiderio di viaggiare. Ma era un sogno quello?
Per questo quando la notte fra il 20 e il 21 luglio l’Italia si era fermata, incollata al televisore, lei e Silvano fecero parte di quel 4% che non avevano seguito la diretta sull’allunaggio.
Luigi e Fabrizio seguirono quella diretta, insieme fino verso le 1 di notte. Poi Luigi rinunciò e solo Fabrizio rimase davanti al televisore.
Ma il giorno dopo Fabrizio era al campo di calcio per quella partita in notturna, a cui per la prima volta la madre assisté una decina di minuti in tutto.
E quel giorno correva come correva ogni partita. Giovava la palla come sempre. Dava pedate e prendeva pedate come tutte le volte che giocava.
Il mondo era uguale a prima. Apparentemente.

Fabrizio aveva cominciato a giocare al calcio a causa di un altro rifiuto di suo padre. Non gli piaceva il calcio. Fu solo un ripiego, un surrogato di una delusione. La delusione della sua vita.
Fin da piccolo amava la bicicletta. Alla Graziani avevano costituito un gruppo di ragazzini ciclisti e gareggiavano fra di loro. Avevano le biciclette più disparate. Tutti comunque avevano biciclette con cambio. Solo due di loro possedevano la bicicletta da corsa. Fabrizio aveva invece la bicicletta da donna di sua madre. Gareggiava con quella, e nessuno riusciva a batterlo. Teneva il passo in pianura e come la strada cominciava a salire si metteva davanti e non ce n’era per nessuno. In quei momenti si sentiva un campione, il suo campione: Franco Bitossi. 
Bitossi, il famoso “cuore matto” non abitava lontano da Montelupo. E a Fabrizio qualche volta capitava di vederlo dal vivo, anche se per lo più lo seguiva in TV.

In quei momenti che si alzava sui pedali e spingeva come un forsennato e con la coda dell’occhio controllava gli avversari dietro che uno ad uno si staccavano si immaginava storto con il collo piegato un po’ a destra come il suo campione in salita. Riviveva in lui quegli attimi di forza. La forza del suo campione diveniva la sua.
Le gesta di Fabrizio non passarono inosservate, soprattutto un giorno che in salita con la bicicletta da donne staccò Nebbia, un ragazzo di Montelupo che correva nella categoria allievi per la Copart una squadra di Limite sull’Arno.
Attaccarono la ripida salita del Pulica. Fabrizio con la bicicletta da donna, Nebbia con quella da corsa. Fabrizio con un solo rapporto. Nebbia con due moltipliche e cinque rocchetti.
Fabrizio si mise davanti fin dall'inizio. Presto tutti si staccarono. Solo Nebbia gli resistette per un centinaio di metri ma la cadenza di Fabrizio fu troppa anche per Nebbia, che saltò come un birillo. 

Due giorni dopo a casa di Silvano e Sabatina si presentarono all’ora di cena due dirigenti della Copart. Volevano Fabrizio nella loro squadra. E lo volevano ad ogni costo. Gli avrebbero dato anche la bicicletta gratis.
Ma fu un altro rifiuto. 
Questa volta anche Sabatina fu d’accordo. 
Marcello Mugnaini, un ciclista professionista, che non viveva lontano da Montelupo, al Tour de France del 1967 aveva subito una caduta terribile, per cui era quasi morto. L’impressione che aveva lasciato quell’incidente in una piccola comunità come quella di Montelupo, era stata così forte che due anni dopo era ancora vivissima.

- No, non voglio – disse Silvano – Non se ne parla.
- A correre in bicicletta? Per vedere se mori! – aggiunse Sabatina.

Con quello la visita dei due dirigenti della Copart si concluse. Delusi e amareggiati se ne andarono.

Fabrizio non trovò la forza di reagire. Il sogno della sua vita, correre in bicicletta e diventare un campione, si dissolse in una sera; quel sogno durato anni era finito in un attimo, all’ora di cena.






No comments:

Post a Comment

Why I write

  Ordinary life does interest me. It gives me substance and makes me be what I am. But I seek in it only the high moments. I search for the ...