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4 novembre 1966





Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
nuda e triste
(Vincenzo Cardarelli)

Da giorni pioveva. Eppure non era freddo, anzi le temperature tendevano ad alzarsi.
Ma Fabrizio era felice. Sua madre gli aveva comprato un vestito nuovo. Il giorno dopo, il 4 novembre, festa delle forze armate, lo avrebbe messo. Sarebbe andato alla messa a Montelupo con il vestito nuovo. Quasi toccava il cielo con un dito per la felicità. Voleva farsi vedere agli amici con il vestito nuovo.
La pioggia continuava a cadere incessante. Una pioggia spessa, pesante, che non dava respiro e aveva il senso dell’imminenza, di un voler annullare ogni creatura che era sotto quello strato di acqua senza fine.

I fiumi principiavano a preoccupare in tutta la Toscana.
Da Firenze arrivavano le voci che l’Arno era grosso e cominciava a far paura. Anche a Montelupo, punto di confluenza fra la Pesa e l’Arno, si cominciava a temere il peggio. La Pesa non riusciva a confluire l’acqua in Arno che era troppo pieno e dava ormai evidenti segni di straripare.
Silvano, Sabatina, Luigi e Fabrizio abitavano in via Rovai, dopo la curva Baldini. Abitavano al pian terreno di una villetta a due piani di proprietà della famiglia Magazzini.

- Vai tu a letto, se hai sonno. Io rimango sveglio. Ho brutti presentimenti – disse Silvano a Sabatina verso mezzanotte – Secondo me prima che sia giorno la Pesa straripa.
- Non lo so. Forse la gente esagera. Certo che sia l‘Arno che la Pesa fanno proprio paura. Se la Pesa rompe non so come va a finire...Mi butto un po‘ sul letto, sono stracca. Ma se succede qualcosa chiamami – rispose Sabatina.

La loro casa si trovana in periferia a metà strada fra la casa di Baldini, a sinistra, sulla curva della strada che dalla Graziani portava a Montelupo, e altre villette costruite sulla destra dove la via cominciava un po‘ a salire verso la Graziani.
In linea d‘aria era proprio dirimpetto al punto in cui la Pesa avrebbe rotto gli argini e da lì si sarebbero scaraventati milioni di metri cubi di acqua melmosa, torbida, gialla come gli occhi dei gatti, a tratti quasi nera, con una violenza impressionante verso Montelupo dove avrebbe creato mulinelli che avrebbero scavato le case dirimpetto alla ferrovia.
La casa di Silvano e Sabatina si sarebbe tuttavia trovata non proprio al centro della corrente, ma quasi all‘angolo esterno del flusso, dove l‘acqua perdeva un poco della sua forza perché avrebbe formato una specie di risacca a causa della via che cominciava in quel punto ad aumentare di pendenza verso la Graziani. Fra la casa e la „terraferma“ della Graziani comunque vi erano almeno un centinaio di metri in cui la corrente aveva impeti ancora forti ma più contenuti rispetto alla parte sinistra che guardava verso casa Baldini che fu investita da un‘ondata dalla velocità impressionante, e tuttavia resistette.

- Svegliati Fabrizio! Svegliati!

Era suo padre.

- Che c‘è babbo?
- L‘alluvione.

Fabrizio non capiva quella parola. Non l‘aveva mai sentita.

- Che è l‘alluvione babbo?
- Vestiti e vieni a vedere.
- Ma che ore sono?
- Le cinque.

Silvano aprì la porta. Fabrizio si affacciò. Per un attimo non si rese conto bene di quello che vedeva, o meglio di quello che non vedeva più. Era ancora buio.
Tuttavia un mare nero senza fine si estendeva davanti alla soglia di cinque scalini che separavano la casa da quel mare senza fine. Non più campi e alberi davanti alla porta di casa. Non più il canneto sulla nistra che costeggiava la vecchia gora e portava l’acqua dal mulino del Cioni fino alla Pesa. Solo la cupola brulla di qualche albero qua e là in mezzo a quella distesa senza fine di acqua tetra.

- Che è babbo?
- E’ l’alluvione, Fabrizio.

Sabatina era stata trasportata all’ospedale nel pomeriggio.
Quando la dottoressa che era arrivata con l’ambulanza era entrata in casa aveva avuto un malore momentaneo.
La cocciutaggine di entrambi di tenere tutte le imposte chiuse per combattere il sole e l’afa di luglio aveva prodotto una temperatura interna alla casa oltre i quaranta gradi.

- Dio mio! – aveva mormorato la dottoressa buttandosi su una sedia per non soccombere al capogiro.

Per fortuna la tempra della giovane donna reagì prontamente, grazie ad un bicchiere di acqua fresca, che gli portò la filippina.

- Presto apra tutte le finestre e faccia entrare aria, qui è una camera a gas! – aveva detto alla badante filippina.

Aveva misurato la pressione a Sabatina trovandogliela intorno ai duecento. Respirava male. Ad un primo esame le parve avesse i polmoni pieni di catarri. Di liquidi forse.

- Presto trasportiamola subito all'ospedale. E mettetele una maschera con l’ossigeno.



Silvano aveva assistito alla scena gracchiando come un corvo appollaiato su un muro.

- Sabatina! Sabatina! Sabatina!
- Che vòi? – gli aveva risposto in toscano.
- Stai male Sabatina?
- O un lo vedi come sto! – Aveva urlato con l’ultimo filo di fiato che le era rimasto.

Poi l’avevano caricata su una sedia a rotelle per infilarla in ascensore. In fondo, al pianterreno, l’aspettava la barella.
Il trambusto finì. Rimase un gran silenzio. Una calma umida, densa e uniforme, come lo scorrere di un’acqua nera. Gli pareva perfino di sentirla gorgogliare e di vederne la superficie scura e minacciosa.
La sua mente labile lo portò fuori dalla realtà. Non sentì più le parole della filippina. Che gli importava a lui della filippina? Che aveva a che fare con lui quella donna? Non aveva mai fatto parte del suo mondo, e ora era lì e lo voleva comandare, lui che aveva sempre comandato.
Non sentì nemmeno il suono dell’ambulanza che partiva e non sentì neanche la porta della cucina che sbatteva per il riscontro a causa di un refolo di vento improvviso.
Sentì solo delle parole lontane salirgli confuse dalla pancia al cuore.

- E’ l’alluvione, Fabrizio.

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