Friday 12 October 2018

8 settembre 1943. Fuga dalla caserma




Ce qu'il y a de plus profond en l'homme, c'est la peau.
(P. Valéry)
“Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta
e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta.”
(Curzio Malaparte)


Silvano…Silvano… — sibilò il commiltone da sopra, per avvertirlo degli spari.
Da sotto Silvano gli fece cenno che aveva capito.
In lontananza si erano sentiti dei colpi di pistola. Dall’altra parte della caserma, davanti all’uscita delle camerate, stava il colonnello con una pistola in mano e due soldati morti ai suoi piedi, a cui aveva sparato perchè avevano tentato di disertare, uscendo dall’ingresso principale.
Il colonnello tedesco avrebbe ucciso chiunqe tentasse l’uscita. I soldati rimanevano nelle camerate in attesa del loro destino. Di lí a poco sarebbero stati arrestati e deportati. I tedeschi aspettavano ordini, appena li avrebbero ricevuti avrebbero cominciato ad arrestarli.
I tedeschi avevano occupato tutta la caserma, la notte stessa. Non vi era via di fuga, apparentemente. Ma Silvano e altre due reclute con un caporale maggiore di Treviso avevano deciso di tagliare le lenzuola delle brande e di calarsi nel cortile interno della caserma, che non aveva vie di sbocco verso l’esterno, ma al centro vi era la grata di un tombino, che portava diretti alle fogne. Non era direttamente accessibile ai tedeschi, fino al momento che fossero penetrati nelle camerate. Solo allora avrebbero scoperto dell’esistenza del cortile.
Avevano deciso di tentare quella via di fuga, attraverso il tombino. Era rischiosa, potevano fare la fine dei topi. Nessuno conosceva dove portava quella fogna, ma era l’unica possibilità. Se andava bene, potevano sperare di scappare. Se andava male, o sarebbero morti in quel tunnel, soffocati, o li avrebbero ammazzati se li avessero scoperti.
Andò fortunatamente bene. La fognatura, nel sottosuolo, era di grandi dimensioni, ma piena di merda. L’odore insopportabile. Nausenate. Camminarono in mezzo alla merda piegati sulle gambe per molto tempo. In qualche punto gli arrivò quasi al mento. Difficile dire per quanto stessero immersi nel liquame. A Silvano sembrò un tempo lungo, infinito, ma quel canale sotterraneo doveva sbucare da qualche parte. E questo diede loro speranza. Non sapevano dove ma sapevano che da qualche parte sarebbe sbucato. Ne erano sicuri. Sebbene ad un certo momento avessero pensato che non ne sarebbero mai più usciti.
Forse passò un’ora, forse meno, difficile calcolare in quel mare di merda e di caldo soffocante, ma alla fine sbucarono in aperta campagna dentro un canale di scolo, ma all’aria, e poterono respirare. Uscirono sospettosi guardandosi intorno. Non c’era nessuno. Il sole era alto. Non sapevano l’ora. Risalirono l'abbastanza ripido ciglione del canale e s’incamminarono verso la prima cascina che notarono in lontananza. Sull’aia c’erano delle persone a lavorare che vennero incontro.
La notte alla cascina ci fu tanta luce come mai, in quella notte dell’ 8 Settembre 1943. Una cosa insolita per quei tempi, forse perché tutti erano abituati al buio notturno a causa del coprifuoco, per evitare gli avvistamenti delle incursioni aeree.
Ci fu un gran trambusto quella notte nella cascina. I contadini accesero un fuoco con le fascine per festeggiare la pace. Tutti erano contenti, gridavano che finalmente era finita la guerra, sarebbe cessata la carestia e i soldati sarebbero tornati a casa. Il piazzale era costellato di fuochi con gente che gioiva ovunque per l’avvenimento. Sembrava insomma l’uscita da un incubo:
Ma uno dei vecchi, forse il capoccia, apostrofava quelli che esultavano e bevevano dal fiasco ““Altro che pace, la guerra comincia ora…Ma credete davvero che i tedeschi se ne andranno buoni buoni? E poi se mai finirà questa guerra pensate davvero che questo paese sarà mai felice e libero? Ci scanneremo l’un con l’ altro, questo è certo”.

Quando era arrivato a Montorio Veronese alla caserma, Silvano aveva visto in lontananza il castello che era scolpito contro il cielo azzurro. Lo aveva guardato come si guarda un’apparizione imprevista.
Aveva un groppo alla gola entrando in caserma, sapeva che di lí sarebbe solo uscito per andare a combattere con l’alleato germanico. Non poteva immaginare che in pochi giorni le sorti dell’Italia si sarebbero sovvertite e l’alleato tedesco sarebbe divenuto il nemico e il nemico l’alleato.
Non poteva sapere che in un giorno si sarebbe disegnato un destino che per l’Italia avrebbe pesato per decenni a seguire, senza soluzione di continuità, come se fosse geneticamente iscritto nel DNA di quel paese.
Ma questo Silvano l’avrebbe capito tardi, gli ultimi giorni della sua vita.

Di quei giorni passati nel cascinale prima di partire alla volta di Verona e tentare di prendere il treno per Firenze Silvano si ricordava una mattina. Il sole era già alto, ed era caldo nonostante fosse quasi metà settembre. Il cielo appariva pieno di cirri setolosi e bianchi come latte di capra.
Nell’aia si erano riunite una ventina di ragazze in bicicletta. Indossavano abiti chiari che sotto il sole filtrato dai cirri assumevano ombrature scure, come in una foto in bianco e nero.
Davanti a loro si stagliava la campagna e una strada bianca lineare che spiccava in avanti come scolpita lungo la piana.
Silvano se ne stava sotto la tettoia della stalla e le guardava come si osserva un dipinto.
Quella imagine di fresca gioventù, di carne esposta al sole, l’ aveva provocato a tal punto che anche ora il ricordo di quel giorno gli faceva provare un’emozione così forte che pur all’età di novantaquattro anni diveniva lancinante. Era la stessa emozione ma attutita nel piacere della carne.
La prostata lo tormentava da anni e non andava che a peggiorare.
Per evitare la miseria dei tormenti presenti tornò a pensare al quadro neorealista, che perdurava nella mente; al ricordo di quelle ragazze che indossavano la bellezza della gioventù e si erano riunite nell’aia per andare al lavoro nei numerosi frutteti adiacenti alla cascina.
Si ricordò di Bruna, che uscì improvvisa da uno dei circuiti del suo cervello. Bruna! come aveva potuto dimenticarla?
Quella mattina anche Bruna era nel gruppo. Avrebbe voluto chiamarla ma si bloccò.

Gli altri commiltoni che abitavano dalle parti di Treviso erano partiti la mattina presto. Avevano ricevuto abiti e scarpe dai contadini. Tramite un loro conoscente, amico di un ferroviere che lavorava alla stazione di Verona avevano avuto informazioni riguardo a quali treni prendere per aggirare i controlli e come entrare in stazione in modo da evitare le pattuglie tedesche.
Erano partiti la mattina verso le tre e mezzo, per camminare al buio fino a Verona, un paio di ore in tutto.
I contadini li avevano riforniti di frutta e pane che avrebbero potuto mangiare per la strada.
Di giorno un gruppetto di ragazzi giovani con i capelli rasati e con borse piene di cibo avrebbe dato troppo nell’occhio e per questo preferirono partire con il buio.
A Silvano era stato consigliato di aspettare ancora un po’. La linea per Bologna era la più pattugliata, appena si sarebbe allentato il controllo lo avrebbero informato.
Silvano si era annoiato tutta la mattina e aveva gironzolato l'intero giorno per la cascina, finché dopo pranzo, nel primo pomeriggio non si era imbattuto negli occhi neri di Bruna.
Due seni sodi come due cocomeri, un naso forte, sguardo penetrante e fiero, montato su un sorriso robusto e candido.
Era stata un’apparizione.

— E tu chi sei? — lo aveva interrogato Bruna in modo diretto e senza rispetto.
— Mi chiamo Silvano. Ho disertato e sono fuggito dalla caserma due giorni fa. Sto aspettando di partire.
— Sei toscano? — gli chiese.
— Sì
— Di dove sei?
— Di Montaione
— E dov’è?
— Vicino Firenze. Conosci Firenze?
— Sì.
— Ce l’hai la ragazza a Montaione?
— No — mentí Silvano.

Poi Bruna lo aveva fissato intensamente.

— Sei un bell’uomo — gli aveva sparato in faccia e si era allontanata a piedi spingendo la bicicletta a mano, senza voltarsi.

La notte mentre dormiva nella stalla Silvano si era svegliato di soprassalto impaurito. Qualcuno aveva sollevato la coperta e si era introdotto dentro.

— Chivalà? — aveva bofonchiato, con il cuore che batteva forte, la recluta Silvano.
— Ssssshhhhh! – aveva sibilato una voce femminile dall’alito caldo e dolciastro vicino al suo orecchio sinistro e poi aveva gli appoggiato una mano sulla spalla.

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