Thursday 23 November 2017

Marco Pantani - la distruzione di un mito LA FINE (undicesima parte)




La fine

Ormai il Male lo aveva completamente divorato. Aveva interamente devastato il suo corpo.
Se ne stava sdraiato sul letto respirando a fatica.
Da cinque giorni era chiuso lì in quella camera. Disteso sul letto.
Le sue gambe non ce la facevano più a camminare e la sua mente era incapace di pensare.
Gli venne in mente Ginevra.
Com’era bella quel giorno che l’ho incontrata.
Perché non ho ascoltato le sue parole?
Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. C’era ora un profumo diverso nella stanza. Non era più quell’odore di fetido, di marcio, che ormai da anni lo soffocava e con cui quotidianamente conviveva dopo quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio.
Era un odore buono. Di pelle fresca. Morbida. Come i seni di una madre.
Di un alito caldo che gli respirava accanto.
Aprì gli occhi.
Ginevra! Sei qui!
Anche tu Abramo! Ci sei anche tu Abramo!
“Sei contento di vedermi Marco?”
Sì Ginevra. Tu sei stata l’unica buona con me, in questi ultimi anni.
L’unica che mi ha detto quello che avrei veramente dovuto fare.
Purtroppo non ti ho ascoltato. Ora è un po’ tardi. No?
Mi dispiace…ti ho deluso…


“Ormai non conta più Marco. Quello che è stato è stato. Riposati Marco.
Chiudi gli occhi ora. Dormi.
Io starò qui vicino a te. Non ti lascerò più. Dormi Marco! Dormi…”
E Marco chiuse gli occhi. E vide un campo, sotto il sole cocente di un agosto torrido.
L’estate più calda che avesse visto. Ma non sapeva dove andare.
Un po’ d’ombra. Ho bisogno di un po’ d’ombra. Ho bisogno di sdraiarmi due minuti all’ombra. Non sopporto più questo caldo.

Si voltò a sinistra. In cima a un monte vide una querce. Alta. Enorme. Ai suoi piedi un’ombra fresca.
Prese allora la bicicletta e pedalò fino ai piedi del monte. Guardò su in alto. La salita era ripida, scoscesa. Sorrise. Sentì forza nelle gambe, come quel giorno all’Alpe d’Huez.
Attaccò la salita. L’attaccò fortissimo, in modo violento. Alla Pantani. A scatti. Scattava e rilanciava l’andatura. Scattava e rilanciava l’andatura.
Uno scatto. Poi un altro. Un altro ancora.
Delle rasoiate micidiali, da stroncare un toro.
Si voltò e vide il gruppo indietro, che si era staccato. Nessuno aveva retto alle sue accelerazioni, improvvise e violente.

Scattò. Scattò ancora. Scattò. Scattò senza fine…
Si voltò e vide il gruppo giù in basso. Un piccolo puntino colorato che arrancava, quattro cinque tornanti più sotto.
Era felice. Nessuno poteva resistergli. Quando lui decideva di andare via nulla e nessuno poteva stargli sulla ruota.

Arrivò in cima alla collina.
Solo.
Un profondo silenzio e un alito di vento.
Posò la bicicletta e andò verso l’ombra.
Era tutto sudato, e sotto quell’ombra si sentì meglio.
Sì adesso riposo un po’. Ho tanto di quel vantaggio che posso riposarmi almeno cinque minuti.
Si distese. Appoggiò la testa sull’erba verde e sentì un gran sollievo. Chiuse gli occhi e incrociò le mani sul petto.
Mo’ sto bene…nonno!


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