Sunday 1 October 2017

Elisabeth Strout "My name is Lucy Barton" ovvero l'arte incantatoria dell'ovvio




Elizabeth Strout scrive bene, Elizabeth Strout sa scrivere, ha uno stile magico, poetico, incantatorio...e...e poi basta.
I contenuti? Non li vedo. Se ci sono, io non li vedo.
Il suo mi sembra un pensiero addomesticato, domato a non far male a non ferire, a non andare oltre la sensazione della malinconia degli attimi.

Anzi mi chiedo: in Elizabeth Strout vi è un pensiero?
Onestamente non lo vedo. Vedo belle contorsioni di frasi, talora al limite della comprensibilità, e in quelle contorsioni sembra annodarsi il massimo del suo pensiero oscuro.
Per esempio vorrei che qualcuno mi spiegasse che profondità di pensiero si annidi in questa contorsione: "It's not my job to make readers know what's a narrative voice and not the private view of the author". L'autore si sdoppia? Da una parte l'autore e dall'altra una voce narrativa che non appartiene all'autore. E a chi appartiene?
Mi viene in mente che un giornalista diceva che si premiamo solo gli autori addomesticati, quelli che con bella voce non feriscono mai la realtà e i regimi che la controllano.
Mi viene in mente che ormai gli autori non questionano più i temi politici, sociali, economici ma si limitano a splendidi (qualche volta) esercizi di stile.
Ecco, Elizabeth Strout è un magnifico esempio di autore addomesticato, domato a dovere, a cui si permette di insegnare l'arte del dire in bel modo l'ovvietà della vita.

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